martedì 30 dicembre 2008

Questa è la mia vita!

Oggi nel negozio dove lavoro è entrata una giovane donna. Una pittrice che desiderava, se possibile, esporre la locandina di una sua personale. Non so cosa sia stato, ma appena la vidi ebbi l’impressione che avessimo qualcosa in comune. Di certo non la pittura, io contemplo i quadri non li produco. Così, in quel momento, libera da ogni impegno lavorativo (non avevo nessuno da servire, effetto crisi!) attaccai bottone.
All’inizio non fu particolarmente loquace. Anzi, si mostrò abbastanza fredda, diffidente. Ma bastò poco a farle cambiare atteggiamento. Una frase, una banale frase, ricca però della mia esperienza. “Nel tuo settore non deve essere facile farsi notare, emergere. Anche per me è un po’ così. Mia madre mi ripete sempre che tra tanti mestieri ho scelto il più impossibile. Piacere, Xxxxx, giornalista nell’anima.”
Ci siamo intese subito. Parola dopo parola scoprivamo un mondo di affinità. Soprattutto i pareri della gente su noi “sognatori”. Mi disse che le dava maggiormente fastidio quando le chiedevano se lavorasse. “Certo che lavoro, esclamò, solo che faccio un lavoro non retribuito!
Da un po’ di tempo ha smesso di dare spiegazioni a chiunque. Va avanti per la sua strada, coltiva la sua passione, getta tanti “piccoli semi”. Così definisce le sue iniziative. Prima o poi germoglieranno e allora lei sarà più forte e preparata di adesso. Artisti. È questo ciò che ci contraddistingue, la passione per il nostro essere. Il saper dire “questa è la mia vita”, e non smettere mai di rincorrerla per prendercela.
Buon Anno a tutti.

lunedì 15 dicembre 2008

Auguri e a presto!

A quanti leggono il mio blog auguro un Natale il più sereno possibile.
A presto, Maleoccupata.

lunedì 17 novembre 2008

Controsensi

"Concorso pubblico, per titoli ed esami, a 814 posti nella qualifica di vigile del fuoco del ruolo dei vigili del fuoco del Corpo Nazionale dei vigili del fuoco. (GU n. 90 del 18-11-2008 )"



Riflettiamo dunque: qual'è il senso di altro concorso per 814 v.v.f. se ancora si stenta ad assumere personale idoneo selezionato precedentemente sempre ricorrendo a criteri concorsuali? Forse... sarebbe più saggio esaurire graduatorie già esistenti piuttosto che sprecare capitale pubblico per redigerne nuove.

venerdì 24 ottobre 2008

Chi sono i veri precari?

Da un mese circa, ogni mattina, piazza Montecitorio a Roma è calcata da giovani che da quasi dieci anni vedono calpestato un loro diritto: essere assunti. Sono gli Idonei 184, meno di mille persone che, per un modus operanti iniziale, sono entrati lo stesso a pieno titolo nella cerchia dei vincitori.
Nel 1998 il Ministero dell’Interno, considerato che a partire dal 31 dicembre di quell’anno sarebbero risultati disponibili 184 posti a vigile del fuoco, bandisce un apposito concorso pubblico per esami. Nel 2000, avendo espletato quanto previsto dal decreto e redatta la graduatoria, vengono impiegati subito ben 486 partecipanti, di gran lunga più del doppio dello stabilito. C’era carenza di personale, in quel momento. Hanno fatto bene. Sbagliano adesso a non trattare in egual modo al 185esimo tutti coloro che hanno superato le varie prove selettive classificandosi pure come idonei. Invece… Invece si dà priorità ai volontari, a chi ha prestato servizio militare nel settore, e a quanti non sono di certo scelti secondo criteri concorsuali.
È cosa giusta?
Che anche loro possano avere questa possibilità è discutibile, ma che si debba ancora discutere l’assunzione dei 184 è ridicolo. Come lo è il continuare a temporeggiare su qualcosa che va fatto perché andava fatto già da tempo.

venerdì 17 ottobre 2008

E se prometto poi... non mantengo

"Nessun rispetto per la costituzione, la meritocrazia è solo una bugia"

lunedì 13 ottobre 2008

Come Grisù, ma non sputano fuoco bensì parole di diritto


MALEOCCUPATI SOSTIENE IL COMITATO IDONEI 184

Mio marito è un 184, uno dei circa 1.000 idonei a concorso Vigile del Fuoco che da quasi 10 anni attende tuttora di essere assunto. La sua storia, la nostra, la loro, io la voglio raccontare per denunciare un sistema che ti fa sperare in un diritto continuando contemporaneamente a negartelo.
Ci siamo conosciuti nel marzo del 1998. Lo stesso mese il Ministero dell’Interno bandisce un concorso a 184 posti di Vigile del Fuoco, garantendo l’assunzione anche ai vincitori “fuori graduatoria” date le gravissime carenze di organico (decreto direttoriale in data 6 marzo 1998, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, 4ª serie speciale, n. 24 del 27 marzo 1998).
Dal 2000, avendo superato tutte le prove selettive ed essendosi classificato, abbiamo iniziato a fantasticare su come quell’impiego ci avrebbe garantito nel tempo una casa, dei figli, una serenità economica che a oggi, purtroppo, non abbiamo.
Di anno in anno, tra mille difficoltà, il Governo proroga la scadenza del concorso. Intanto dicembre è alle porte, come pure la finanziaria, e ci ritroviamo nuovamente a doverlo trascorrere nell’ansia di un ennesimo, agognante, slittamento dei termini, in una sospensione d’animo che mina la felicità di un Natale che potrebbe essere segnato dalla fine di tanti sogni più che dalla loro definitiva realizzazione.
Da giorno 7 sono in piazza Montecitorio a Roma per protestare, per far sentire a chi di dovere che LORO ci sono ancora, che ancora attendono, che ancora aspirano ad essere servitori di uno Stato che sembra averli dimenticati.
I nostri nomi non contano. La nostra vicenda è simile a quella di tanti altri idonei. Il destino, o più semplicemente il tempo, ha voluto accomunarci anche in questo. Siamo già un gruppo. Sono già una
squadra.


Spett.le redazione, chi Vi scrive è uno dei 1400 idonei rimasti in attesa da otto anni del concorso pubblico a 184 posti di Vigile del Fuoco bandito nel 1998. Da martedì 7 ottobre scorso, in piazza Montecitorio, è costantemente presente un gruppo di idonei che porteranno avanti ad oltranza lo sciopero della fame fino a quando chi di dovere non darà una risposta concreta e definitiva a questa situazione.
Per l'anno 2008 il governo ha autorizzato l'assunzione di 1135 vigili discontinui (precari), che a differenza nostra non hanno dovuto nemmeno superare le cinque prove concorsuali, bensì solo una di esse, la prova ginnica. La cosa assurda è che con il decreto milleproroghe 2008 hanno autorizzato la proroga della validità della nostra graduatoria per l'ottavo anno consecutivo per assumere solo 52 unità a fronte delle 1135 unità dei discontinui (precari). Abbiamo, già da tempo, costituito un Comitato che lotta giorno dopo giorno per far valere i propri diritti sanciti dall’articolo 97 della Costituzione, che recita: “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso”, questa precisazione è stata più volte ricordata anche dal Ministro Brunetta, però purtroppo, non ne vediamo riscontro.
Stando al parere emesso dal Dipartimento della Funzione Pubblica (UPPA n°2/08), sussiste il vincolo, più volte ribadito dalla giurisprudenza costituzionale, di garantire l’adeguato accesso dall’esterno (mediante concorso) in misura non inferiore al 50 per cento dei posti utilizzati, configurandosi, infatti, la stabilizzazione, come progressione verticale. Purtroppo, anche di questo non abbiamo riscONTRO.
Il Comitato idonei 184 V.F. è disposto a qualsiasi cosa pur di vedere realizzato questo sogno ed è per questo che La invita a divulgare ufficialmente la notizia di questa nostra iniziativa, sperando di sensibilizzare l'opinione pubblica ed ottenere finalmente risposte concrete dallo Stato, per il quale in futuro, si spera, saremmo disposti a dare la nostra vita. Cordiali saluti, un idoneo del concorso 184 V.V.F.
Luigi Lopardo

Da http://www.ilmessaggero.it/

______________________________________________________

Ringrazio http://dug.splinder.com/ per avermi ricordato la storia di Grisù, da cui ho preso spunto per il titolo del post e da cui ho scaricato l'immagine.

mercoledì 1 ottobre 2008

Lettura consigliata

Paradossi del calo della disoccupazione di Tito Boeri, professore ordinario alla Bocconi, su http://www.lavoce.info/, rivista indipendente online di opinioni su attualità e politica.

martedì 23 settembre 2008

"Mi sono venduta per 800 euro al mese"

Augusto Barbieri viene trovato morto nel suo ufficio, pugnalato a prima vista dalla moglie Ludovica che è sul posto con l’arma del delitto. L’esame del corpo, però, indica che l’uomo è morto già da alcune ore e così i sospetti si spostano sulle dipendenti del suo call center, dipendenti che Barbieri ricattava esigendo sesso in cambio di contratti di lavoro.

È la trama del primo dei due episodi di Distretto di Polizia 8 andato in onda la settimana scorsa ma, almeno in parte, potrebbe benissimo essere la descrizione di una pratica abbastanza diffusa nella società italiana di oggi. Così, quando l’attrice che interpretava la parte dell’assassina ha confessato di essersi venduta per 800 euro al mese, ho pensato che l’indomani avrei approfondito l’argomento su internet. Il giorno seguente invece, prima ancora che mettessi in atto il mio proposito, ascoltando la radio tra una faccenda casalinga e l’altra, ecco una notizia che mi ha colpita più del film della sera precedente: il 18% di 540 studentesse intervistate dall’associazione Donne e Qualità della Vita accetterebbe di vendere il proprio corpo per affermarsi sul lavoro. E la colpa di questo loro “mal” costume sarebbe per il 24% della famiglia di appartenenza non benestante, mentre per il 10% dei mass media che promuovono tal “cripto prostituzione”. Io a 26 anni non baratterei mai me stessa per soldi. E voi?

domenica 14 settembre 2008

Linfa giornalistica

Come molti, insomma, io ho una passione che la Padrone definisce di sicuro insuccesso. Io preferisco premettere l’in al primo termine e dire piuttosto di insicuro successo. Perché, come la storia dell’archeologo dimostra, e la stessa giornalista la commenta, si può sfondare in un settore di dubbia occupabilità se si persegue ciò che si desidera testardamente e con competenza. Senza arrendersi alle prime difficoltà, anche se le sconfitte vanno messe in conto. Contesto permettendo, ovviamente.
Io, nonostante non possa annoverare tra le mie referenze nessuna collaborazione giornalistica né editoriale, escluso qualche articoletto in giornali locali, non rinuncio al mio sogno lavorativo. Aspirerò sempre a realizzarlo e cercherò di aprirmi, quando e dove possibile, nuove strade verso quella direzione, anche se, nel frattempo, posso fare altro.
Perché dovrei negarmelo?
Perché dovrei soffocare quest’anima che palpita dentro di me?
Sarebbe come chiedere a una sirena di scegliere: sentirsi o solo pesce o solo uomo. Ma è entrambi, per natura! Beh… io posso essere commessa, segretaria, moglie, madre, ma sarò sempre giornalista di carta stampata. Anche senza tesserino né qualifica, perché lo sono nel sangue, nella testa, nelle mani… in tutto ciò che sono. E ogni passo che ho compiuto finora per il raggiungimento di questo obiettivo non lo rimpiango.
Neppure quando mia madre, con i soliti discorsi già detti e ridetti, mi rinfaccia, con fare dolente, che se avessi scelto un’altra facoltà universitaria, adesso, forse, non farei un lavoro non all'altezza delle sue aspirazioni e dei suoi sacrifici, ma avrei, magari, già un impiego stabile.
Neppure quando mi invita a nuovi studi in un settore professionale maggiormente richiesto dal mercato, senza comprendere il significato delle mie parole: non potrei, non riuscirei a impegnarmi seriamente, con spirito e motivazione, in qualcosa che mi farà sentire comunque un’infelice. Se proprio devo esserlo, preferisco esserlo il minor possibile, e non dolendomi di aver dovuto pure faticare per ritrovarmi in una simile condizione.
I più, sentendomi fare simili discorsi, si affrettano a ribattere, interrompendo il mio parlare, che sono un’incosciente immatura, che devo affrettarmi a crescere ora che ho messo su famiglia e abbandonare certe illusioni da ragazzina. Ma cosa ne sanno loro? Io li faccio i miei sacrifici, sgobbo per racimolare qualche euro, eppure voglio ancora altro da questa mia vita. Ho una passione che mi motiva e mi fa sentire viva, e che prima o poi mi garantirà “sostentamento”. Intanto le do sfogo in questo mio blog, che racconta di me e di giovani volenterosi pronti a lottare per affermare la propria identità in un Paese, l'Italia, dove spesso veniamo visti ed etichettati come fannulloni falliti.

lunedì 8 settembre 2008

L’archeologo imprenditore

Alessandro è un fiume in piena. Parla con un bell’accento della sua terra, Galatina in provincia di Lecce, punta meridionale estrema della Puglia. È il sud del sud, terra di lunga storia ma anche di alta disoccupazione, e non stupisce che i suoi professori, avendo di fronte un ragazzo sveglio,abbiano cercato di tenerlo lontano dai rischi di un mercato del lavoro difficile. Hanno tentato di smontare i suoi sogni a occhi aperti, per indicargli delle opportunità più concrete. Hanno ragionevolmente insistito sul fatto che le materie scientifiche possono condurre a una formazione meno aleatoria e illusoria delle materie umanistiche. Magari tanti altri studenti avessero qualcuno che li guida in questo modo! Quante illusioni in meno ci sarebbero, e quanti giovani troverebbero più facilmente qualcosa di solido e interessante da fare.Nel caso di Alessandro, però, i consigli non erano all’altezza dei suoi sogni e della sua determinazione. Chi lo ha spinto a fare il liceo scientifico invece del classico non aveva capito di avere di fronte una persona con una marcia in più. Uno che non voleva una strada più facile, ma che intendeva arrivare a tutti i costi in fondo alla “sua” strada. Il grande alleato di Alessandro è stato, ed è, un desiderio sfrenato di realizzare i suoi sogni. (Precari e contenti, Angela Padrone)

Anch’io ho dovuto impormi per tentare di realizzare, almeno in parte, i miei. Quando, terminati gli studi classici, dovetti decidere seriamente cosa fare da grande e, conseguentemente, quale facoltà universitaria scegliere, io, non ebbi alcun dubbio: giornalismo. Mia madre invece ne ebbe tanti e cercò, seppur invano, di insinuarli nella mia mente. Tra frasi assurde, della serie “sei troppo bassina, finiresti per confonderti tra la gente senza riuscire a intervistare nessuno”, e veritiere purtroppo, quali le difficoltà di trovare lavoro, forte del mio essere, fui costretta a metterla di fronte a una scelta: o avrebbe assecondato la mia aspirazione o niente. Mi sarei fermata. Al diavolo le mie capacità, le mie potenzialità, la mia attitudine per lo studio e la preparazione. Tutto ciò non avrebbe avuto più un senso se non fosse stato orientato al raggiungimento di ciò che oramai era diventato il mio obbiettivo di vita. Mai mi ero permessa di obiettare ai suoi consigli. Ero sempre stata ubbidiente, consenziente. Tutto ciò che diceva, decideva, andava bene, anche se poi magari non era proprio così e ne soffrivo. Ma quella decisione NO! In tutto questo mio padre lasciava fare a noi donne. Soltanto una volta, durante una delle nostre discussioni, esclamò: "si ie chiddu chi voli fari lassaccillu fari". Ebbe ufficialmente inizio la mia formazione giornalistica… (continua…)

sabato 30 agosto 2008

Il lavoro interinale meglio del pallone?


La sua passione è sempre stata il pallone. Fin da ragazzino, appena poteva andava a giocare a calcio. Con gli amici, a scuola, con la squadra. Il suo sogno era fare il calciatore. Come tanti ragazzini, ma con in più un precedente, quello di suo padre. “Lui giocava nel Palermo Primavera. Ha fatto anche due partite in serie A.” Davide ne è orgoglioso. E lui a quattordici anni ha cominciato a fare provini per i grandi vivai che allenano calciatori in erba: quelle magnifiche fabbriche di sogni per adolescenti, dalle quali esce un calciatore di serie A ogni cento prescelti. Gli altri, che quando entrano si sentono dei piccoli semidei, baciati dal dio del calcio sulle loro testoline di ragazzini scatenati e determinati, illuminati dall’aura del successo, già delle piccole celebrità in famiglia, nel quartiere, a scuola, si perderanno per strada o giocheranno in squadre minori. Davide a quattordici anni fa un provino con la Lodigiani, uno dei vivai più famosi d’Italia. “Andò benissimo” racconta, con la voce ancora felice. Ne fece anche un altro con il Milan. Andò fino a Milano per sperare. Andò tutto liscio. Ma… “Ma mia madre disse no. Il pallone non ti garantisce la vita. Diceva. Se tutto va bene guadagni fino a trent’anni, e poi?” E così la mamma di Davide decise che il pallone non era la sua strada.


Oggi Davide ha trentadue anni. Da circa un anno è stato assunto alla Nissan, e grazie a questa stabilità già pensa di comprare casa e metter su famiglia. La sua storia, raccontata in Precari e contenti, da cui ho tratto il testo, mi ha colpita perché ha lui è stato negato un sogno da una madre che pensava di fare il suo bene.


Fin da piccola adoravo starmene seduta sul divano a leggere qualsiasi opuscolo, volantino, pubblicità, trovassi nel mobiletto porta-telefono. Poi un giorno in garage scovai in uno scatolone tanti numeri di Cronaca Vera, rivista settimanale specializzata in costume e cronaca nera. Mia madre li aveva avuti dalla sorella per usarli come carta straccia per accendere la caldaia a legna dei termosifoni. Prima che finissero divorati dalle fiamme, io, me ne appropriai tutta contenta da buon lettore in erba. Avevo soltanto quattro anni, ma sapevo anche già scrivere e far di conto. Ben presto ebbi modo di spulciare perfino Famiglia Cristiana sottraendola, tra un cliente e l’altro, a mia zia. Passavo spesso pomeriggi interi nel suo negozio, poiché giocavamo proprio nel marciapiede di rimpetto. Un altro mio appuntamento fisso erano i tg. In questo, diciamo, sono tutta mio padre. Come dire… Per Hegel la lettura del giornale era la preghiera mattutina dell’uomo moderno. Per noi la visione dei tg quella del mezzogiorno e della sera. Accadeva così che, a differenza del resto della famiglia, io ero l’unica a parlare sempre in italiano anziché in dialetto. Chi mi ascoltava, sorrideva. Immaginate voi un pidocchietto di bimba, leggermente paffutella, con dei riccioli informi tenuti a bada da qualche acconciatura con fermaglio di turno, piazzarsi davanti a voi, mani ai fianchi, e dirvi in perfetto italiano ciò che le passa in quel momento per la testolina, nonostante nessuno le parli in quel modo.
Adorabile!
Per voi, immagino.
Semplicemente passionale invece.
Il suono di tutte quelle parole esercitavano su di me un potere, oserei azzardare, ipnotico. Mi ammaliavano, e io cedevo ben volentieri al loro effetto.
Fino alle elementari non ebbi modo di leggere nessun libro per ragazzi. Poi, in prima, mi dissero che alcune storie contenute nel mio sussidiario le potevo ritrovare in biblioteca. Quel pomeriggio stesso chiesi a mia madre di andarci, e fu così che lessi il Piccolo Principe di Oscar Wilde (o sarà stato un altro? Irrilevante comunque). La volta successiva il mio sguardo fu attratto da uno scaffale con volumi dalla copertina interamente gialla. Avevo scoperto il mondo di Agatha Cristhie. Le sue storie stimolavano la mia curiosità. Il suo talento nel costruirle facendo dubitare di tutti i personaggi motivava le mie letture. In seguito, spinta dagli insegnanti che, nel vedere l’ardore con il quale divoravo intere pagine in poco tempo, ritenevano dovessi concentrarmi su generi a loro avviso di più alto livello, allargai il mio orizzonte di interessi.
Va detto che non mi dedicavo soltanto alla lettura. Tutto ciò che leggevo era adeguatamente riassunto, commentato, analizzato. Mi esercitavo così pure nella scrittura.
Già avevo ben chiaro in mente quale mestiere avrei fatto da grande: qualunque mi avrebbe permesso di continuare a vivere le mie passioni!
(continua...)

domenica 24 agosto 2008

Alcune precisazioni

Dare una definizione del concetto di precarietà risulta alquanto problematico poiché il suo significato spesso dipende da una visione più personale che oggettiva di determinate forme di lavoro. Pertanto credo sia utile, per comprendere appieno il contenuto del mio blog, indicarvi la mia posizione in merito:
Nell’ambito delle riflessioni sulle trasformazioni del mercato del lavoro non di rado si utilizzano come sinonimi termini con valenze semantiche molto differenti tra loro. Accade così che i concetti di atipicità, flessibilità e precarietà si sovrappongano in modo improprio, rimandando a loro volta a forme specifiche di partecipazione al mercato del lavoro che poco hanno in comune.
Se, ad esempio, ci si riferisce con il termine “lavoro atipico” a tutte quelle forme di lavoro che differiscono dalla tradizionale organizzazione dei tempi di lavoro, sia giornalieri sia settimanali, si scopre che soltanto poco più di un terzo dei lavoratori svolge una prestazione lavorativa a tempo pieno dal lunedì al venerdì, in ore sostanzialmente diurne e senza turnazioni e/o straordinari. Il part time, ad esempio, individua una forma di flessibilità del lavoro (prevalentemente femminile) che non è detto si associ a forme di precarietà e, al contrario, più spesso riguarda lavoratori stabili che optano per una riduzione dell’orario del lavoro.
Possiamo quindi affermare che il termine flessibilità coniugato con riferimento all’orario di lavoro non, necessariamente e immediatamente, individua condizioni lavorative che presentano difficoltà oggettive a partecipare con continuità e sicurezza al mercato del lavoro.
Gli elementi di insicurezza sono verosimilmente soprattutto legati alla mancanza di continuità nella partecipazione al mercato del lavoro e alla conseguente mancanza di un reddito adeguato su cui poter contare per pianificare la propria vita nel presente e nel futuro.
È quindi opportuno distinguere almeno tra flessibilità oraria e flessibilità contrattuale, in quanto solo quest’ultima sembra associarsi con più frequenza anche a condizioni di precarietà. Come risulta dall’indagine sulle Forze di lavoro, l’88 per cento dei lavoratori che hanno un contratto di lavoro a termine afferma che “la temporaneità non è una loro scelta volontaria”. Ciò a fronte del 55 per cento per l’insieme dei paesi dell’Unione europea.
Inoltre, sarà tanto più probabile individuare forme di precarietà quanto più la temporaneità del contratto si associa:
• a una ridotta o assente copertura previdenziale;
• alla mancanza di ammortizzatori sociali per la copertura dei periodi di vacanza contrattuale;
• a una scarsa probabilità di transitare verso contratti stabili;
• a una maggiore frammentazione del percorso lavorativo;
• alla brevità dei contratti;
• ad un sotto inquadramento contrattuale rispetto al titolo di studio;
• alla lunghezza della permanenza nella situazione d incertezza contrattuale
.”
(Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro,Istat ,novembre 2006)
Per quanto riguarda il lavoro nero, da molti considerato una realtà a parte, a mio avviso rientra a pieno titolo fra le varie forme di precariato. Anzi, è la più esasperata, in quanto presenta i livelli più bassi di tutela dell’individuo rispetto ai punti or ora elencati.
Infine, che la precarietà così definita possa essere vissuta in maniera più o meno appagante dipende da esigenze del tutto individuali, come dimostrato dall’analisi delle mie e delle esperienze di altri.

lunedì 18 agosto 2008

Come pavoni

Noi, precari del 2000, siamo ragazzi da invidiare. È come se avessimo “cento occhi invece di due” volendo usare le parole della Padrone. Ma io, che appartengo alla categoria, non concordo.
Negli anni Ottanta l’incubo peggiore dei giovani era la disoccupazione. Oggi abbiamo possibilità di scelta: c’è anche il precariato!
Camaleontico, poliedrico, ti permette di accumulare, a suo dire, esperienze vent’anni fa impensate. Poi leggi proprio su Precari e contenti che certi lavoretti, tutt’ora in voga, erano semplicemente snobbati dalla maggior parte dei “piccoli borghesi” che, non essendo tenuti a lavorare se non per sfizio, erano dell’idea che o li assumevano per la vita o niente. Allora insorgi: e poi saremmo noi i coccolati, i blanditi,i compatiti? Saremmo noi gli aspiranti numero uno al posto fisso? Senza offesa né rancore né alcunché di personale, ma molti di noi mettono da parte aspirazioni e studi, si rimboccano le maniche, e si adattano a tutto pur di avere un’occupazione. Forse noi precari infelici siamo simili agli studenti-lavoratori del suo tempo, “una razza a parte, figli martiri di un’eroica classe operaia”. Noi sì che accettiamo come alternativa al nulla il precariato, mentre loro invece non potevano accettare di fare il barista o la cameriera. Anche questo noi facciamo, ma non potete negarci di farlo senza lamentarci. È troppo.
Le leggi in materia di occupazione hanno certamente aumentato l’offerta di lavoro, creando però al contempo situazioni di instabilità tali che la soddisfazione per aver trovato un impiego è sminuita dalla frustrazione per l’alta probabilità della sua temporaneità. Da un lato ci sono le opportunità, dall’altro c’è carenza di strumenti di controllo e di sostegno. Risultato: deficienza del sistema, insicurezza per i lavoratori.
La giornalista del Messaggero conclude il prologo al suo libro con l’invito a confrontare la sua caccia al lavoro con la propria. Io l’ho fatto e ci sono più somiglianze che differenze di quanto lei creda e scriva. Anch’io appena laureata ho inviato curricula a destra e a manca senza ottenere risposta.
Anch’io avrei voluto accompagnare la mia laurea con un master in giornalismo, ma ho dovuto rinunciare: 7 mila euro annui per due anni. Intanto spero di passare le selezioni per uno gratuito ma della durata di soli 40 ore (meglio di niente!).
Non ho fatto la lavapiatti, la baby sitter sì. Anche la segretaria e la commessa.
Se ci sarà mai l’occasione di un concorsone farò anche quello. Per vivere.
Ma non rinuncerò mai a ciò che più amo: scrivere.
Non siamo poi così irresponsabili come ci descrivono.
Siamo solo pratici, molto pratici.
E non dite “ai miei tempi…”. Allora il contesto era di tutt’altro genere. Allora evidentemente si poteva, oggi non sempre. Eppure facciamo.

sabato 9 agosto 2008

Maleoccupati su Acqua&Sapone

La rivista Acqua&Sapone del mese di agosto ospita tra le sue pagine, nella sezione "Io giornalista per una volta", un pezzo in cui Maleoccupati si racconta.

Di seguito il testo:


Anni? 26.
Sposata? Sì.
Figli? No.
È questo il profilo della potenziale mamma, lo stesso che rimane di me ogni volta che sostengo un colloquio di lavoro. Di fronte alla combinazione di questi tre requisiti, la laurea da 110 in Giornalismo, i corsi di formazione professionale, le conoscenze informatiche certificate, vengono inevitabilmente archiviati nel dimenticatoio e la conclusione è perentoria: le faremo sapere, anche se…. Scartata. È così da un anno. Ora sono commessa part-time in un negozio di abbigliamento, in nero, con un misero stipendio che non raggiunge neppure le 200 euro mensili. Un’occupazione avuta grazie alla complicità di un’amica che mi ha presentata al suo datore (che poi è diventato anche il mio) senza specificare il mio stato civile. Lui non ha provveduto a indagare e ne è venuto a conoscenza soltanto qualche settimana dopo. Constatata la mia intenzione di non mettere al mondo creature che “avrei difficoltà a mantenere” – dissi – mi ha tenuta. Devo averlo proprio convinto! D‘altronde ho accettato di dedicare metà della mia giornata ad un’attività che esula totalmente dai miei interessi e, oltretutto, per un compenso da fame. Da aprile questa e altre esperienze le racconto nel blog www.maleoccupati.blogspot.com. L’idea è nata dalla lettura di un’inchiesta sul lavoro flessibile condotta su Panorama da Gianluca Amadori. Dalle storie riportate sembrava emergere l’immagine di un’Italia contenta di lavorare nell’incertezza. Eppure fra quelle righe ho scorto tanti segnali di insoddisfazione ed espressioni che ben conosco, che io stessa più volte ho pronunciato, e che riempiono le mie giornate scisse tra un’impeccabile vita familiare e un’inappropriata vita lavorativa
.

mercoledì 30 luglio 2008

Io ho da ridire

Ho scoperto Precari e contenti di Angela Padrone per caso, su google, navigando alla voce precari. Mi colpì subito il link al suo blog www.angelapadrone.blogspot.com perché quella parola a me tanto familiare era associata a un aggettivo per la mia esperienza inappropriato. La giornalista del Messaggero, nel libro, raccoglie storie di giovani che ce l’hanno fatta, storie “positive” per uscire, a suo dire, dai luoghi comuni. Quell’espressione mi diede fastidio.
Al di là della mia condizione che purtroppo è comune ma non nel senso che lei intende, esistono dati statistici che testimoniano in maniera esaustiva e schiacciante l’esistenza del problema più che del pregiudizio ideologico da esso derivante. Decisi che l’avrei acquistato e letto, non necessariamente per confutarlo quanto per conoscere l’altro rovescio della medaglia. L’ho fatto qualche settimana fa. Purtroppo già dal prologo ho qualcosa da ridire.
Il suo discorso ruota attorno alla convinzione che “con la flessibilità si deve e si può convivere”. Premesso che a mio avviso in tali circostanze il dovere dovrebbe essere una scelta del singolo, mentre il potere sarebbe più accettabile se effettivamente trasformabile in opportunità, non è di certo accettando la flessibilità come un obbligo che si evita di incorrere nella cosiddetta trappola della precarietà, di cui lei stessa ammette l’insorgere nella società post-moderna.
Insomma, leggendo ho avuto l’impressione che si cerchi di minimizzare gli aspetti-effetti negativi di ciò che lei definisce un “imbroglio ideologico, sociale e morale”, una “malattia da ceto medio”, “categoria mentale da ex studenti”. Una “disgrazia” - continua - che riguarda soprattutto i giovani di quella che un tempo si chiamava piccola e media borghesia, in quanto proprio loro mancano di determinazione o, addirittura, sono semplicemente sfortunati.
Bah… sarà! O sarà forse una questione di portafoglio? Non tutti possiamo permetterci master, stage o quant’altro richieda dispendio di energie, tempo, e soprattutto soldi, senza avere un sostegno economico. Non tutti abbiamo genitori disposti a mantenerci ancora dopo averlo fatto per anni per garantirci una laurea. Dopo questo agognato traguardo la scelta che si prospetta a noi ex studenti è un lavoro, anche precario.
Forse il vero pregiudizio lo si ha verso questi ragazzi che vengono rappresentati nei termini seguenti:

A ventitré anni sognano il salotto buono, la casa di proprietà, le vacanze organizzate e la pensione.

Troppo spesso loro stessi rassegnati a una società divisa in caste nella quale però non hanno più il posto pronto ad aspettarli.

Perché, prima lo avevano? Ripenso alle pagine di Vittorio Buttafava in La fortuna di vivere (Rizzoli Editore, 1982):

È un ragazzo di ventitré anni, tornato da poco dal militare. “Fate presto voi, che avete già vissuto la vita” dice quasi gridando “a consigliarci di stare tranquilli, di avere pazienza. Ma che cosa possiamo aspettarci? Ho preso la maturità, e mi hanno detto che quel pezzo di carta non contava niente. Ho fatto un corso di lingue, e pareva che a nessuno importasse del mio inglese e del mio tedesco. Ho imparato un po’ di elettronica presso l’azienda di un parente, ma guai a farmi illusioni; un posto per me non c’è e forse non ci sarà mai. Pazienza, voi dite, perché siete seduti in poltrona. Ma provate a stare in piedi, davanti a una porta chiusa, ad aspettare...”

Così l’autore commenta il racconto:

È qui la malattia dell’Italia d’oggi, in questa amarezza, in questa rassegnazione, in questa rabbia. E non è, purtroppo, solo una crisi di soldi o di lavoro.

Io dico: vada per l’amarezza e la rabbia, ma non per la rassegnazione. Siamo solo pratici. Dobbiamo esserlo, per esigenze. Rimboccarci le maniche, fare sacrifici, a noi no spaventa. È una prolungata incertezza per il futuro che non vogliamo. È il non poter far fruttare i nostri studi che non accettiamo. E non è detto che la preparazione o la determinazione bastino a farci realizzare i nostri progetti. Non ci interessano nè il salotto buono nè le vacanze organizzate, ma la casa di proprietà e la pensione sì. Per poter godere di una vita tranquilla, senza l’assillo di un affitto in scadenza e la preoccupazione di una vecchiaia incerta.
Non è forse la stessa giornalista a confidare di aver cominciato a mettere su casa proprio quando ha avuto la certezza si un lavoro sicuro? È pur vero che ammette di aver voluto rinunciare a quel “posto” quando le proposero di insegnare Storia e Filosofia in un liceo privato. Ovvio. Non avendo comunque responsabilità verso terzi, insomma potendo dare alla carriera priorità su tutto, è naturale pensare di prendere una simile decisione. Hai una passione, hai studiato per poterla realizzare, e quando si presenta l’opportunità, non avendo ribadisco altre necessità, non vorresti altro che buttarti a capofitto nel tuo sogno anche se da precaria. Non si può fare dunque dell’aut aut. E penso che si possa essere dei precari contenti solo se lo si è nel proprio settore di interesse e si è nelle condizioni di poter scegliere. In tutti gli altri casi, penso, avrei da ridire. Ma attendo di leggere le restanti 19 storie prima di aggiungere altro.

domenica 27 luglio 2008

Precari, Pdl difende norma.Sacconi prende distanze

Il governo si divide sulla cosiddetta norma anti-precari inserita nella manovra alla Camera e ora all'esame del Senato: il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha preso le distanze dalla norma che il Tesoro inserì nel suo maxi-emendamento e su cui chiese la fiducia a Montecitorio. Le opposizioni e i sindacati stigmatizzano la posizione ambigua dell'esecutivo e chiedono che la norma sia cambiata al Senato.
E le organizzazioni del lavoratori lanciano anche un allarme: la norma farebbe saltare l'accordo sui precari siglato con le Poste, l'azienda per la quale nasce la norma stessa. Ma il percorso più probabile, e condiviso tra i ministri, è quello che la manovra non venga modificata al Senato, ma intervenga un successivo decreto di correzione. Il presidente della commissione Bilancio del Senato, Antonio Azzollini, ha ironizzato sul fatto che sia esplosa una polemica solo oggi: "é curioso - ha detto - la norma è stata presentata e votata 20 giorni fa in commissione Bilancio alla Camera; poi è stata discussa in aula prima e dopo la fiducia". Sta di fatto che mentre il Pdl ha difeso la norma, con Italo Bocchino, Osvaldo Napoli e Daniele Capezzone, il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha fatto sapere di essere "distinto e distante" dalla contestata norma. Il ministro Renato Brunetta gli dà ragione, mentre i ministri Gianfranco Rotondi e Roberto Calderoli hanno disconosciuto la paternità dell'esecutivo: "la colpa è del Parlamento" ha detto Calderoli.
L'arcano sull'origine della norma è stato svelato da Gianfranco Conte (Pdl), presidente della commissione Finanze della Camera, e presentatore con la Lega dell'emendamento durante l'esame in Commissione alla Camera. Il loro intento era quello di aiutare le Poste, alle prese con il contenzioso di numerosi precari con cui sono stati siglati contratti irregolari. Racconto confermato da Pierpaolo Baretta, capogruppo del Pd in commissione, che si era battuto contro la norma. "Il governo - contesta l'ex sindacalista Cisl - non può fare Ponzio Pilato e lavarsene le mani. L'emendamento lo ha accolto e lo ha inserito nel maxi-emendamento su cui ha chiesto la fiducia". La richiesta al governo di cancellare al Senato la norma arriva unanime da tutte le opposizioni, parlamentari ed extraparlamentari: da Enrico Letta a Pierferdinando Casini, da Pierluigi Bersani a Silvana Mura di Idv, da Oliviero Diliberto a Roberto Fiore del Fronte nazionale.
Anche il sindacato fa sentire la sua voce con il segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni, che invita il governo "a non nascondere dietro un dito le proprie contraddizioni". E il segretario generale di Slc-Cgil, Emilio Miceli, lancia un allarme paradossale: la norma potrebbe far saltare l'accordo sottoscritto dalle Poste con i sindacati per la stabilizzazione dei precari. "La situazione nelle Poste era già preordinata e risolta - ha detto Miceli - e la sollecitudine del governo è quanto mai sospetta". Il ragionamento comune, esplicitato da Enrico Letta, ministro ombra del Welfare, è semplice: "Dal momento che il governo nega la paternità del grave emendamento, c'é una sola via d'uscita, semplice e lineare: il Senato elimini l'emendamento". Il punto è che il silenzio del Tesoro è assai eloquente. E lo spiega il presidente della commissione Bilancio del Senato, Azzollini: "al momento il governo non ha modificato la propria posizione, e cioé quella di portare a termine la manovra prima possibile". Il motivo è semplice: "se dice sì al cambiamento di uno dei contenuti della manovra, si aprono le cataratte" degli emendamenti. La soluzione riferita da Azzollini è quella di un successivo decreto alla manovra che la modifichi "di intesa con le parti sociali".
Soluzione che andrebbe bene anche a Sacconi. "L'intera materia andrà rivista - ha commentato Brunetta - e credo che il ministro Sacconi abbia la capacità e la sensibilità per farlo". Diverso il caso sull'articolo 60 della manovra, sulla flessibilità del Bilancio, che anche il Quirinale ha chiesto di ritoccare: "quella è una cosa diversa - osserva Azzollini - è un problema di natura tecnica, di procedura. Se il governo decide di modificarla, poi la manovra viene approvata in due giorni alla Camera in terza lettura". Domani alle 15 scade il termine per presentare gli emendamenti in commissione al Senato e il sottosegretario Giuseppe Vegas è atteso per la replica del governo.
CREMASCHI, ROMPERE CON CONFINDUSTRIA - "Il sindacato ha una sola risposta seria visto che il mandante" della norma sui precari contenuta nel maxi-emendamento del Governo "é la Confindustria. La risposta è rompere le trattative con la Marcegaglia e preparare un autunno di lotte per il salario e contro la precarietà". E' quanto sostiene il segretario nazionale della Fiom-Cgil, Giorgio Cremaschi. "Qualsiasi altra reazione - aggiunge - rientra nel regno delle chiacchiere. Lo scandalo improvviso sulla norma anti-precari è alquanto ipocrita in quanto questa norma era conosciuta da diverse settimane e alcuni di noi l'avevano con forza denunciata".
(di Giovanni Innamorati)
Ansa del27/07/2008

lunedì 21 luglio 2008

La mia rabbia è la loro?

A lavoro. Entra un venditore ambulante, un vu’ cumprà e, mostrandomi un telo mare, mi invita ad acquistarlo per garantirgli almeno un panino. Dico che non sono interessata e, con tono gentile, gli auguro comunque una buona giornata sperando di frenare così ogni sua potenziale insistenza. Tentativo fallito. Il tipo torna alla ricarica riprendendo a farmi lo stesso discorso ma io rimango impassibile nella mia posizione. Passa allora a chiedermi un’offerta, anche solo un euro. Mi implora quasi, e io, cercando di mantenere sempre un tono cortese seppur più deciso, rispondo con un secco no. Gli spiego che io, per guadagnare un solo euro, devo dapprima servire un cliente e poi sperare che ne spenda almeno trenta. Un vero colpo di fortuna considerando l’attuale trend delle vendite. Tutto inutile. Decide allora di far leva sui miei sentimenti dicendomi, con aria preoccupata, che ha due figli da sfamare. ALT! È proprio qui che perdo il mio self-control e la rabbia ha il soprevvento. Questa frase più la sento, più mi infastidisce. Cambio infatti subito atteggiamento affermando che io di figli non ne faccio proprio perché non potrei mantenerli.
So bene che spesso determinate situazioni non dipendono da noi. Che puoi ad esempio svegliarti una mattina con moglie, figli, senza lavoro e con notevoli difficoltà a trovarne un altro. Ma non ci riesco. Quella frase mi sa di calunnia. Difatti, il giorno seguente, altra zingara stesso discorso.
Perché non riesco a commuovermi alle loro parole?
Mi torna in mente una pagina di Luca Goldoni in Vita da bestie:
Anche perché stravedere per gli animali, a volte, svela aspetti mortificanti. Anni fa a San Francisco avevo osservato che quasi tutti i barboni avevano in grembo un cane o un gatto, impassibili come loro nella dignità di una miseria accettata. E non avevo pensato che si portassero dietro l’animale per richiamo, come le zingare per i lattanti dai piedini nudi in dicembre. Credo che in America pietà o indifferenza prescindano dall’immagine contingente.
Da noi non è così. Davanti a un grande magazzino staziona abitualmente una donna con il solito pezzo di cartone scritto in mezzo italiano, appoggiato a un cappello quasi sempre vuoto. Sento i commenti: quella è bosniaca come io sono cinese.
L’altra mattina, nel posto dove la figura nera è oramai inserita nell’arredo urbano, ho notato un insolito assembramento di massaie che si richiamavano con strilli di tenerezza: accanto alla donna c’era una cagnetta con tre cuccioli che succhiavano il latte. Dentro al cappello tintinnavano i centoni offerti dal repentino buon cuore. Con un colpo di ingegno la bosniaca aveva intuito quali corde toccare per commuovere i passanti
.”
Io stravedo per i bimbi ma sono come gli Americani.
Vorrei chiedere a queste persone di raccontarmi la loro storia. Non l’ho mai fatto. Appena do il mio rifiuto a qualunque loro richiesta si tramutano in viso. Diventano piene di rabbia. Perdono di verità. Almeno per me.

sabato 19 luglio 2008

Maleoccupati torna presto

Dopo la pausa non prevista Maleoccupati tornerà con post interessanti sul libro di Angela Padrone Precari e contenti. Storie di giovani che ce l'hanno fatta.

giovedì 3 luglio 2008

La flexicurity danese: un modello per l’Italia?

Apparteniamo alla categoria delle “generazioni flessibili”. Così titola il rapporto sull’occupazione edito dalla Fondazione Giacomo Brodolini per l’anno 2007. E aggiunge: “Nuove e vecchie forme di esclusione sociale”.
Il volume contiene 7 saggi che analizzano il problema della precarietà sociale, nonché il ruolo della formazione e del lavoro retribuito come strumenti di inclusione. In particolare Michele Raitano ed Elena Pisano, dottoranda in Economia politica a La Sapienza di Roma, discutono la possibilità di introdurre anche in Italia una “flessibilità sostenibile”, ossia un sistema che combini virtuosamente le richieste di flessibilità delle imprese con un’elevata protezione dei lavoratori in termini di ammortizzatori sociali, politiche attive e formazione professionale. Insomma, si chiedono se sia realizzabile anche da noi la flexicurity olandese, un modello basato sul cd. triangolo d’oro:
-
normativa permissiva in materia di licenziamenti;
- sussidi generosi in caso di disoccupazione;
- politiche efficaci di attivazione al lavoro.
Le conclusioni a cui giungono i due studiosi invitano alla cautela. Attualmente non ci sono i presupposti, in quanto un simile mercato espelle di frequente un elevato numero di lavoratori che devono non solo essere tutelati economicamente ma anche professionalmente, per salvaguardarli da un lato e incrementarne qualifiche e occupabilità dall’altro. Ne deriva che è necessaria l’assenza di ogni forma di segmentazione della forza lavoro in termini di tutele del welfare delle retribuzioni, rischi di intermittenza dell’attività, e accesso a corsi di formazione. Requisiti del tutto assenti nel nostro Paese.
Nell’ultimo decennio difatti, i principali interventi normativi volti a favorire il mercato del lavoro italiano, il Pacchetto Treu (legge 196 del 1997) e la Legge Biagi (legge 30 d3l 2003), si sono concentrati principalmente sugli aspetti contrattuali a discapito di quelli della protezione sociale. Ciò ha determinato in primis una segmentazione fra lavoratori a tempo indeterminato e temporanei: un elevato grado di protezione dell’occupazione distingue i primi dai secondi. Quest’ultimi poi si sono distinti fra dipendenti a tempo determinato e parasubordinati (collaboratori coordinati continuativi o a progetto), i quali non hanno diritto a nessuna forma di sussidio di disoccupazione. Tale segmentazione ha assunto col tempo dimensioni sempre più preoccupanti. Basti pensare che dal 2001 al 2006 la quota annua di nuove assunzioni con contratti a tempo indeterminato si è ridotta dal 60% al 46%, mentre dal 1996 al 2004 quella dei parasubordinati è raddoppiata, e dal 2000 al 2004 quella dei determinati è aumentata del 20%. Ciò si è verificato perché, come spiegano Muehlberger e Pasqua, i contratti atipici sono utilizzati da molti datori di lavoro come un modo economico per assumere temporaneamente giovani qualificati. Non a caso il 30% del personale parasubordinato risulta laureato a fronte del 12% di quello indeterminato. L’essere laureati tuttavia non incrementa le possibilità per i temporanei di transitare verso forme contrattuali indeterminate (Corsini, Guerrazzi). Di qui l’emergere della trappola della precarietà, ossia il rimanere intrappolati nello status di svantaggiato per un ampio periodo di tempo, durante il quale si è esclusi perfino dalle attività di formazione professionale attivate dalle imprese. Quindi non solo si vive nell’incertezza, ma si rischia addirittura di rimanere sprovvisti in futuro di adeguate conoscenze e/o competenze.
Bisognerebbe dunque prevedere un’adeguata spesa in termini di politiche sia attive che passive. Le prime per favorire l’ingresso nel mercato del lavoro a chi ne è uscito (i cd. lavoratori scoraggiati) o aiutare chi ha perso il posto a trovarne un altro o crearne uno nuovo; le seconde invece per sostenere finanziariamente i lavoratori che perdono reddito a causa di licenziamento o pensionamento anticipato.
In entrambi i casi pero il sistema italiano risulta deficitario. Nel 2004 la quota PIL destinata a tali voci era pari rispettivamente allo 0,55% e allo 0,76% a fronte di una media UE15 dello o,70% e dell’1,47%. La Danimarca invece registrava le percentuali più alte.
La flexicurity pertanto non potrebbe funzionare fino a quando tali limiti non saranno superati. Un’azione non facile.
Da un'indagine Eurosta del 1999 si evince che, in tema di politiche attive, solo il 24% delle imprese organizza corsi di formazione, a cui partecipa solo il 26% degli occupati, a fronte di una media comunitaria del 62%/40% e a valori superiori al 90%/50% in Danimarca e nei Paesi Nordici. Anche in tema di ammortizzatori sociali il rapporto non è differente. In Italia non si ha certo una copertura assicurative del 80-90% dell’ultimo reddito!
Inoltre due studiosi americani, Algan e Cahuc, in un articolo del 2005, sostengono che nei Paesi Scandinavi dove esiste un forte spirito pubblico la flexicurity funziona; mentre nei paesi dell’Europa Mediterranea, caratterizzati da una scarsa educazione civica, si rischia di incorrere in un abuso di aiuti pubblici. Insomma, si potrebbe scegliere di restare in una condizione di disoccupazione per ricevere il sussidio ma svolgere contemporaneamente lavori in nero. È pur vero che in Italia per poter usufruire di questo privilegio si devono svolgere attività in determinati enti in modo che, almeno teoricamente, non ci si possa dedicare ad altre. Il problema è che non ci si dedica neppure a trovare un nuovo lavoro, ma anzi si sviluppano aspettative di assunzione pur essendo “lavoratori socialmente utili”.
In conclusione, non solo le attuali forme di flessibilità sono pericolose, ma risulterebbe altrettanto pericoloso trasformarle in qualcosa di sostenibile.

Italia maglia nera per stipendi, occupazione - Ocse

Cattura l'attenzione il rapporto tra ore lavorate e stipendio medio. Un lavoratore italiano in media in un anno dedica al proprio impiego 1.824 ore (dato 2007). Lavorano più degli italiani, tra tutti i 30 paesi Ocse, soltanto i cechi, gli ungheresi, i lussemburghesi e i polacchi.
Ma gli stipendi sono magri, almeno rispetto ai colleghi stranieri. A parità di potere d'acquisto, un italiano in media nel 2006 ha guadagnato 29.844 dollari, rispetto ai 38.252 dell'Ocse e 34.651 della Ue-15. Lo stipendio italiano in termini reali è calato dello 0,2% nel 2006. Altre contrazioni si sono registrate soltanto in Germania (-0,3%), Portogallo (-2,6%), Spagnia (-0,7%) e Paesi Bassi (-0,1%), contro una crescita dell'1,1% nell'area Ocse e dello 0,4% nella Ue-15.
Solo altri sette paesi stanno peggio o come l'Italia in termini di stipendio. Sono la Repubblica Ceca e quella Slovacca, l'Ungheria, la Polonia, il Portogallo, la Spagna e la Grecia.

TASSO OCCUPAZIONE BASSO TRA LE DONNE
Solo il 46% delle donne italiane può vantare un impiego e il tasso di occupazione femminile è molto basso anche nella fascia di età più attiva (25-54 anni), al 59,6%, il terzo peggiore nei paesi Ocse, dopo Messico e Turchia.
Secondo lo studio "la scarsa occupazione femminile è innazittutto il risultato della debole partecipazione delle donne italiane al mercato del lavoro, dovuta all'inadeguatezza delle politiche di sviluppo delle infrastrutture per l'infanzia e all'insufficienza delle detrazioni fiscali a favore di coppie multi-reddito".
Inoltre, le italiane guadagnano in media il 18% in meno rispetto ai colleghi maschi per ora lavorata. "Persistenti pratiche discriminatorie nel mercato del lavoro sono un fattore chiave alla base di queste disparità".
E non sembra aiutare la condizione delle lavoratrici italiane il ricorso al part-time, pari al 15,1% sul totale occupazione (dato 2007), rispetto al 15,4% della media Ocse e al 18,1% di quella Ue-15, con una punta del 36,1% nei Paesi Bassi.
Reuters del 02/07/2008

domenica 22 giugno 2008

Disoccupazione cresce, sopra 7%

Istat: in primo trimestre +324mila occupati, +1,4%

(ANSA) - ROMA 19 GIU - La disoccupazione in Italia torna a crescere. Nel primo trimestre, annuncia l'Istat, il tasso di disoccupazione e' tornato sopra al 7% (7,1%). Nello stesso periodo del 2007 era del 6,4%. E' il livello più elevato degli ultimi due anni: nel primo trimestre 2006 il tasso di disoccupazione era pari al 7,6%. Ma anche l'occupazione continua a crescere: Nel primo trimestre, su base annua, il numero di occupati è risultato pari a 23.170.000 unità (+1,4% su base annua).

Ansa del 19/06/2008

domenica 15 giugno 2008

Cosa vuoi di più dalla vita? Un Lavoro!

È scoraggiante. Aver voglia di esprimere se stessi e non potere. Sentirsi soddisfatti pur avvertendo che manca qualcosa. Un altro tassello ancora, per colmare quel vuoto che insidia una routine quotidiana densa di attività eppure priva di denso sapore. Perché, tra le tante cose che faccio ogni singolo giorno della settimana ce n’è una, il mio lavoro, che anziché riempirmi mi svuota l’anima. È come in cucina: quando prepari una pietanza e da ricetta dovresti usare il pecorino ma, non avendone, lo sostituisci con il grana. Magari ciò che hai preparato sarà mangiabile lo stesso, ma non squisito. Hai infatti alterato un’armonia esistente solo fra determinati ingredienti. Così è anche nella vita.
Il mio ex datore di lavoro per la laurea mi regalò una maglia con su scritto “it is not what it is” (non è ciò che è). Da allora quella frase ritorna spesso alla mia memoria. Sono una commessa, cioè un’aspirante giornalista commessa. Sono felice, cioè non totalmente felice.
Ho un compagno che mi ascolta, mi capisce, con cui condivido perfino la più banale delle scelte, delle arrabbiature, dei sorrisi; Ho un amico che mi conosce veramente, a cui posso raccontare ogni cosa senza inibizioni, timori o censure. Il legame che ci unisce è talmente schietto, sentito e disinteressato che è come guardarmi allo specchio; Ho una famiglia che mi vuol bene, anche se a volte mi fa andare un po’ su di giri: si dispiace con me e per me di non vedermi godere del frutto dei miei studi e della mia passione. A mia madre, che è la persona che più si arrovella per la mia attuale condizione lavorativa, cerco allora di mostrare il lato positivo della situazione: sono in salute quindi posso lavorare e sperare di farlo un dì nel mio settore. Se non lo fossi, a me che avevano diagnosticato un male, sarebbe tutto più difficile.
In fondo conduco un’esistenza in cui non mi privo di grandi cose: non ho una casa mia; non ho intenzione al momento di mettere al mondo una creatura che avrei difficoltà a mantenere; non ho un’occupazione attinente le mie capacità e aspirazioni. Insomma, tenuto conto dell’odierno sistema socio-economico italiano, rientro nella normalità. Per questo, quando ascolto certe storie in TV, le leggo su libri, giornali o internet, mi ritengo fortunata. Peccato si tratti di una consolazione di breve durata! È più forte il senso di rabbia che mi brucia dentro e che riesco a calmare la sera, quando tra le braccia del mio lui chiudo gli occhi e piena di speranza mi dico “domani è un altro giorno”. Saprà di Via col vento, ma mi fa star bene.

mercoledì 11 giugno 2008

domenica 8 giugno 2008

Una mala occupazione accettabile. Parte seconda.

Il lavoro di receptionist in una palestra è stato per me un’opportunità davvero edificante, un’esperienza altamente formativa. Ho infatti potuto maturare le mie capacità relazionali, gestionali, risolutive. Se lasciai è stato non per mia volontà ma per causa trasferimento attività in altra sede. Non avrei potuto dire basta a un ambiente per me stimolante.
Certo, se avessi dovuto vivere soltanto di quella paga… beh… impossibile. Sicuramente sempre meglio dell’attuale che sfiora la metà, ma non adeguata comunque a esigenze a tempo indeterminato. Allora ero studente, i miei provvedevano alle mie necessità primarie (non ho potuto avere tuttavia tante di quelle cose per altri scontate!), lavorare era quasi uno sfizio, un capriccio paradossalmente. Ricordo che mia madre si oppose risolutamente all’idea. Dovevo pensare a laurearmi piuttosto! Non sprecare tempo in qualcosa che non aveva nulla in comune con i miei studi. Più volte sentii ripetermi simili frasi. Per qualche giorno fu perfino fredda e distante con me nel tentativo di dissuadermi. Io non demorsi. Era ciò che volevo. Dovevo dunque. Non penso che sarei arrivata prima al 110 se non avessi accettato quel lavoro. Anzi per me è stato un’iniezione di entusiasmo, di voglia di fare, di realizzarmi. Mi ha motivata in un periodo particolare della mia vita. Se così non fosse stato, il giorno della tanto attesa proclamazione non sarei andata a lavorare! No, non mi è stato imposto dal mio datore. Sono io che ho scelto. Volevo condividere l’importanza di quell’evento con lui e con tutti coloro che mi avevano vista stare sui libri tra una pausa e un’altra. Era il miglior modo per festeggiare.
Quel giorno però è iniziata la mia vera condizione di maleoccupata. Quel giorno, infatti, sono cambiati i presupposti di me lavoratore. Adesso avevo un titolo tra le mani. Adesso dovevo avere delle pretese. Dovevo esigere.
Non esigo perché non transigono. O stai alle loro condizioni o non sei assunta. Questa è l’unica regola. Purtroppo. Prendere o lasciare. Senza obiezioni. Dura lex, sed lex. Peccato che la legge sarebbe dalla nostra!
Così mi ritrovo già grande, con il pezzo di carta, delle necessità e senza garanzie. Senza tutti quei progetti che mi avevano accompagnato nel periodo della mia formazione e che ho abbandonato quando dalla teoria sono passata alla pratica. Da allora mi sento in perenne formazione. Stabile e instabile contemporaneamente. E neppure in ciò per cui ho studiato.
Ero l’Alessandro Anzolin dell’inchiesta di Panorama: lo studente.
Sono, a volte, un’Ismene Zumpano: il rassegnato.
Vorrei essere, ed è l’anima che più mi squassa dentro una giornalista. Di denuncia, di utilità sociale. Una giornalista in regola, con un futuro sicuro e nuovi progetti a cui poter pensare perché quelli di un tempo li ho già portati a termine. Con successo.

Intrappolati nel lavoro atipico

ROMA - Sono oltre 830 mila i lavoratori italiani che nel 2007 erano a rischio precarietà, 20 mila in meno rispetto all'anno precedente. Un calo che inverte la rotta rispetto agli anni precedenti, ma a cui non corrisponde un miglioramento della condizione economica. Secondo l'ultima ricerca dell'Ires-Cgil, in collaborazione con l'Università la Sapienza, sul lavoro parasubordinato, il reddito medio per i precari è infatti di circa 8.800 euro l'anno. Non solo, una gran parte dei lavoratori rimane "intrappolata" nel lavoro atipico: sei precari su dieci per due anni di seguito e oltre il 37% per tre anni (la ricerca prende in considerazione il triennio 2005-2007). "Il dato positivo - ha sottolineato il segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni - è che il trend ascendente ha subito un rallentamento. Significa che volendo si può intervenire, come ha fatto con atti concreti il precedente governo, e bisogna continuare ad intervenire. Tuttavia il numero complessivo resta altissimo e rappresenta una anomalia in Europa".
Secondo i dati 2007 raccolti nella ricerca di Ires, Nidil e Università La Sapienza, i lavoratori parasubordinati sono oltre 1,5 milioni, con un aumento del 2,4% rispetto al 2006. In questo insieme rientrano però anche i lavoratori 'tipici', ovvero gli amministratori, i sindaci di società e i partecipanti a commissioni, che sono circa 500 mila. Un milione sono invece gli atipici, in larga maggioranza titolari di contratti di collaborazione. Di questi i lavoratori ritenuti a rischio di precarietà, quelli cioé che hanno una collaborazione con reddito esclusivo, erano lo scorso anno 836 mila, contro gli 858 mila del 2006. In un anno il calo è stato quindi di oltre 20 mila unità e, secondo la ricerca, è ascrivibile "all'attenzione che il Ministero del Lavoro ha attribuito alla lotta alle false collaborazioni, all'aumento del contributo pensionistico di 5 punti percentuali rispetto al reddito che ha reso meno conveniente per le aziende il ricorso alle collaborazioni, e infine agli incentivi alla stabilizzazione". I precari emergono come un popolo di giovani "ma non troppo".
L'età media è infatti di 34 anni e il contratto medio dura circa sette mesi. A livello territoriale la maggiore concentrazione si riscontra in Calabria e nel Lazio, dove sono precari tre parasubordinati su quattro. Per quanto riguarda i redditi, la ricerca evidenzia come per i precari la media si attesti nel 2007 a 8.800 euro l'anno, con un incremento rispetto al 2005 del 4,8%, pari a 405 euro. Si tratta, sottolinea la Cgil, di un aumento "tanto limitato da impedire il recupero dell'inflazione reale. Ciò indica inequivocabilmente un costante peggioramento delle condizioni economiche". Dai dati si evince inoltre che il lavoro parasubordinato non rappresenta un "evento passeggero". Le collaborazioni "per essere impieghi temporanei sono decisamente stabili nel tempo - sottolinea la ricerca - l'impressione è di essere di fronte ad una flessibilità contrattuale di lunga durata in cui l'impegno lavorativo, seppur intermittente nel corso dell'anno, è però rinnovato da un anno all'altro". I casi sono "molto frequenti: sei precari su dieci rimangono nell'impiego atipico per due anni di seguito, e oltre il 37% vi è rimasto per l'intero triennio in considerazione. Si tratta evidentemente di una condizione di intrappolamento nel lavoro flessibile". "Per affrontare il tema della precarietà - ha sottolineato Filomena Trizio, segretario generale Nidil Cgil - sono necessarie politiche adeguate che sappiano contrastare i fenomeni degenerativi basati su mere convenienze di costo del lavoro. Da qui la necessità e la responsabilità per il nuovo governo di mantenere e rafforzare" l'azione intrapresa nello scorso biennio.


Ansa del 05/06/2008

mercoledì 4 giugno 2008

Il Protettore dei precari

Vi segnalo il Santo dei precari con annessa preghiera. Entrambi sono stati scaricati dal sito www.sanprecario.info .



venerdì 30 maggio 2008

Una mala occupazione accettabile. Parte prima.

9 novembre 2006 – ANSA- 7 studenti lavoratori su 10 occupati in nero. Un anno dopo, nel 2007, anch’io sarei rientrata, mio malgrado, in quel campione.
Dopo l’esperienza del servizio civile nazionale, mi misi alla ricerca di un lavoro. Non avevo particolari esigenze economiche. I miei mi mantenevano volentieri all’università. Piuttosto sentivo l’esigenza di distrarmi dalla solita routine giornaliera fatta di studio, studio, e soltanto studio.
All’inizio pensai a un part-time. Evidentemente, da inesperiente, non avevo valutato attentamente la realtà locale: già era difficile trovare un impiego, figuriamoci poi uno conforme alle proprie esigenze!
Con un diploma di maturità classica, nessuna qualifica e una laurea da completare, dovevo solo incrociare le dita ed eventualmente adattarmi. Come confermato più volte in seguito, conoscere le persone giuste può essere un fattore determinante. Paradossalmente, anche per il lavoro più mal pagato, mal appagante, mal mal di questo mondo, una leggera spintarella non guasta.
Così tra passaparola, annunci, e appunto agganci, vengo presentata al titolare di una palestra alla ricerca di una receptionist. Ovviamente poco importava il mio curriculum. Perché, a parte le ore di educazione fisica alle superiori, le mie referenze in materia erano pari a zero. Comunque, come mi fu spiegato il primo giorno, avrei dovuto semplicemente occuparmi dell’apertura e della chiusura dei locali, della pulizia, della tenuta del registro soci e contabile e dell’accoglienza dei clienti.
Lavoravo tutti i giorni mattina e pomeriggio, tranne il martedì e il giovedì mezza giornata. Sfruttavo la restante, i ritagli di tempo che riuscivo a concedermi a lavoro a suon di musica o nelle notti insonni , per studiare. La domenica non era per me né il giorno del riposo né del Signore. Sono riuscita tuttavia a sostenere gli ultimi 3 esami con ottimi voti e con una soddisfazione personale di cui vado fiera tuttora.
La paga era buona: intorno alle 400 euro. Nessun contratto.
È stato un periodo davvero edificante, soddisfacente. Forse, calcolando le ore effettive (44 ore settimanali circa) e le mansioni svolte mi sarebbe spettato qualcosina in più. Ma non importava: avevo altri progetti. Purtroppo devo ancora realizzarli!

giovedì 22 maggio 2008

Che paese infame l’Italia!

Ho voluto titolare questo post con l’esclamazione di chiusura del commento rilasciato da un anonimo qualche giorno fa. Ho riflettuto molto sulle sue parole, cercando di capirne il perché. Non è stato difficile, in fondo già sapevo. Oggi ho deciso di farlo a voce alta affinché sia lui che altri possano ribattere al mio pensiero.
La rabbia racchiusa in quelle poche righe è la stessa che cova dentro di me.
Penso di averle lette con lo stesso pathos di chi le ha scritte, nonostante abbiamo due modi differenti di affrontare una medesima situazione.
Anch’io sono laureata, con il massimo dei voti aggiungo. Una laurea sudata fin dal momento in cui ho scelto il corso: giornalismo. Mia madre non era d’accordo. Ho raggiunto il traguardo quasi in tempo, con un’adrenalina dentro che mi faceva ben sperare. Dopo i primi curricula inviati a vuoti iniziai a rassegnarmi.
Attualmente sono commessa in un negozio di abbigliamento, in nero e sottopagata.
La rassegnazione iniziale è andata sempre più scemando.
Io non mollo! Io non rinuncio a ciò che amo fare, per cui ho studiato con sacrificio, da cui non riesco a tenermi lontana. Ho tentato, non lo nego. Invano. Ho rischiato di spegnermi lentamente.
Ad altri lavori, anche più “in regola”, invece sì che ho rinunciato!
Io non sono una sognatrice. Anzi, sono fin troppo realista, pratica, calcolatrice se serve.
Se c’è da aspettare, aspetto. Ho pazienza in compenso. Non molta, ma abbastanza.
Capisco tuttavia le ragioni di chi a 30 anni e con tanto di referenze sostiene fermamente: meglio precari che disoccupati. Amaramente, con quella stessa amarezza che racchiude una simile affermazione, dico: ha le sue ragioni.
Non saprei neppure restare in silenzio. No. Io non ci riuscirei.
Se vuoi sopravvivere a questa realtà devi adeguarti. È questa la vera trappola! Il nostro tallone d’Achille.

domenica 18 maggio 2008

Precari impotenti anche fra le lenzuola (parte seconda)

La notizia riportata dall’Ansa sui precari a rischio impotenza dovrebbe far riflettere sulla gravità di una condizione figlia del lavoro flessibile.
Sono sicuramente lodevoli tutti quei contributi giornalistici, editoriali e simili, che continuano a metterne in luce gli aspetti positivi, ma ciò non dovrebbe distogliere l’attenzione da quelli negativi. Se i primi, è innegabile, ci sono, i secondi purtroppo continuano ad aumentare a dismisura.
I precari esistono. Non sono frutto di luoghi comuni, di pregiudizi ideologici, come spesso si sente o si legge nei media. La loro situazione va analizzata, inquadrata, risolta (quasi) definitivamente. Si sa, ogni albero ha le sue mele marce. Eppure l’agricoltore non si prende forse cura della pianta affinché siano il meno possibile? Insomma, rispetto alle finalità iniziali per cui erano state introdotte e poi regolamentate le varie forme di temporaneo, oggi, si è andato un po’ troppo oltre. Se da un lato infatti le norme in materia di promozione dell'occupazione hanno centrato il loro obiettivo, dall’altro molte frecce non sono andate a segno e rischiano addirittura di fare feriti, sia in ambito lavorativo che sociale. I più colpiti sono le fasce deboli, i giovani in particolare, le cui prospettive di vita diventano ancora più insoddisfacenti. Proprio loro che dovrebbero essere e sono il futuro del nostro paese! Un futuro che si rigenera nelle famiglie. Ma senza stabilità economica l’unica certezza è il niente: niente casa, niente figli, niente di niente. Nondimeno la nostra Costituzione all’articolo 31 afferma: “La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi.” Ditemi come. Con aiuti in assegno o similari?
Garantendo un posto di lavoro serio otterrebbe risultati certamente più apprezzabili, proficui e meno onerosi, perché darebbe autonomia, certezze, stabilità, a chi quella famiglia deve mantenerla. E invece preferisce prendere soltanto misure temporaneamente necessarie ad arginare questo o quell’aspetto della questione, senza mai affrontarla di petto e porvi fine, qualunque sia il costo da sostenere. In fin dei conti, considerando che i rischi a cui si va incontro non prestando la dovuta attenzione a quella che potremmo definire una deviazione rispetto alle finalità legislative non sono né pochi né indifferenti, forse una presa di posizione più decisa non sarebbe così dolorosa o insostenibile come si pensa.

mercoledì 14 maggio 2008

Precari impotenti anche fra le lenzuola

ROMA - Non bastavano il contratto a tempo determinato, le difficoltà nel comprare casa e nel mettere su famiglia. I giovani precari sarebbero anche a rischio impotenza: a sostenerlo è Marco Carini, direttore della Clinica urologica di Firenze, che a margine della conferenza per i cento anni della Società italiana di urologia (Siu) ha sottolineato come i fattori di incertezza tipici dei precari possano causare eiaculazione precoce e disfunzione erettile. Il problema dell'eiaculazione precoce, come ricorda l'esperto, colpisce il 25-30% dei giovani, mentre la disfunzione erettile interessa il 35% degli uomini sotto i 35 anni e il 47% di quelli sopra i 36. "Per i più giovani - spiega Carini - la precarietà del lavoro, le difficoltà economiche, l'impossibilità di creare una famiglia sono fonte di ansia e stress, e possono avere serie ripercussioni sulla vita sessuale". Se a queste incertezze si somma poi anche la mancanza di un partner stabile, "allora - continua Carini - allo stress si va ad aggiungere l'ansia da prestazione che si può scatenare con i rapporti occasionali".

Ansa del 14-05-2008

domenica 11 maggio 2008

Teoria confermata dunque?

Che la trappola della precarietà non fosse una di quelle solite teorie formulate da sociologi allarmisti oggi ne abbiamo conferma.
Se i dati elaborati finora dagli istituti di ricerca, per quanto attendibili, sono stati sempre etichettati come inadeguati ad analizzare la vera natura del fenomeno date le difficoltà nel reperirli, quelli emersi da una ricerca di prossima pubblicazione sembrerebbero molto più esaurienti.
Dal 1999, per ben 7 anni, lo studioso Michele Raitano ha seguito 1.103 lavoratori atipici giungendo alla conclusione che “per le donne, i meno giovani, i meno istruiti... lo status di parasubordinato o di lavoratore temporaneo… non appare per nulla semplicemente transitorio… ma nella maggior parte dei casi persistente.”
L’analisi si basa su microdati di fonte amministrativa dell’archivio di gestione separata dell’Inps, quella per intenderci a cui versano i contributi i collaboratori.
Un campione dunque fortemente rappresentativo poichè non derivante da criteri più o meno estemporanei o cervellotici.
Ne riparleremo comunque a giugno, quando potremo prendere visione completa del lavoro svolto da Raitano. Sarà infatti contenuto nel Rapporto sullo stato sociale curato dalla Fondazione Giacomo Brodolini, un progetto europeo di analisi dell’occupazione.

giovedì 8 maggio 2008

Panorama n° 8 del 21/02/2008

PRECARIO NON E' BELLO

Esprimo il mio disappunto per la vostra indagine sulla precarietà del lavoro giovanile su Panorama 52.
Potrebbe essere apprezzabile l’idea di sdrammatizzare un argomento così delicato come il precariato. Ma sono costretto a ritenere che o gli intervistati sono degli alieni (ci sono dichiarazioni che lasciano veramente perplessi: una su tante, quella di un certo Marco Fiori da Modena, che ha scelto il ruolo di precario rifiutando varie volte di essere assunto a tempo indeterminato) o il campione d’indagine non è rappresentativo dalla realtà lavorativa giovanile.
Ma come si fa a dire che ci sono dei pro in un contratto a progetto se le banche per un mutuo casa vogliono le ultime tre buste paga e un contratto di lavoro da almeno due anni?
Avrei apprezzato di più se alla fine dell’articolo ci fosse stata una tirata di orecchie al nostro Paese e alla nostra classe politica.

Agostino Alla, via e-mail

Meglio precari che disoccupati?

Su 4.500.000 atipici 3.000.000 sono occupati a termine, autonomi o collaboratori a progetto, mentre i restanti 1.000.000 o sono part-time o non conoscono la propria forma contrattuale o non la vogliono rivelare.
Un dato, quest’ultimo, davvero preoccupante per la tipologia di lavoratore che racchiude. Tralasciando per un momento chi si trincea dietro la propria privacy, mi stupisco che esistano ancor oggi persone che prima di intraprendere una qualunque attività non discutano i termini di svolgimento della stessa. Ossia fanno un lavoro per cui percepiscono uno stipendio ma non sono informate sulle regole che lo tutelano e dunque li tutelano. Un po’ inverosimile come situazione!
Ovviamente anche il non voler rivelare la propria condizione lavorativa dà sempre adito a strani pensieri (perché? cosa c’è da nascondere?) ma aderisce molto più alla realtà. Insomma, anch’io ho dato risposte evasive, però in fondo sapevo il fatto mio! Immaginiamoci ora un 1.000.000 di lavoratori che di fronte a una domanda apparentemente innocua fanno altrettanto. Vien da pensare o no?
I dati emergono dall’ultimo rapporto Isfol sul lavoro 2007 e sono stati riportati, ancora una volta, in un’inchiesta di Panorama del 26/12/2007.
Ma attenzione, la mia non vuol essere un’analisi di parte. Tutt’altro. Critica. Vi spiego. Aprire un blog su un tema così delicato e sfaccettato come il precariato è stata una scelta dettata dall’esigenza di analizzare un fenomeno al di là della mia personale esperienza. Perché da laureata sottopagata e senza tutele quando vedo sulla copertina del settimanale diretto da Maurizio Belpietro l’immagine di una ragazza sorridente e la didascalia recitare

VI SEMBRO
PRECARIA?
NIENTE POSTO FISSO,
MENO GARANZIE:
5 MILIONI DI LAVORATORI ITALIANI
HANNO ORMAI UN IMPIEGO FLESSIBILE.
MOLTI PERO’ NON SI LAMENTANO.
STORIE DI CHI CON
IL CONTRATTO A TERMINE
A IMPARATO A VIVERE BENE

comincio a storcere naso, bocca e tutti i muscoli facciali. Non capisco. Possibile? mi chiedo. No!
Spulciando ben benino il servizio noto infatti che mi è stata data una chiave di lettura errata. Si tratta di una soddisfazione che va contestualizzata. Altrimenti si rischia di ricevere un’immagine imprecisa del fenomeno.
Fra le storie raccontate ho individuato 3 tipologie di lavoratori:

· lo studente che, in quanto tale, momentaneamente non aspira al posto fisso. Ha altri progetti per il futuro, ossia far fruttare i propri studi.
Una filosofia perfettamente sintetizzata nelle parole di Alessandro Anzolin, 26 anni, laureando in ingegneria elettronica e magazziniere per tre ore la sera dal lunedì al venerdì:

Dico grazie ai lavori precari. Mi sono serviti per pagarmi l’università. […] La mattina frequento l’università, il pomeriggio studio, dalle 18:30 alle 21:30 sono al lavoro. Guadagno 500 euro al mese, ma queste esperienze sono state per me molto positive, l’ideale per inserirsi nel mondo del lavoro pur continuando a studiare. […] In futuro però spero di trovare un posto come ingegnere.”

Lo stesso vale per Manuel Incorvaia, 20 anni, cassiere al Burger King:

Vorrei lavorare sul trucco cinematografico o teatrale. Per inviare curriculum però serve un corso serio e così cerco di risparmiare.”

· il rassegnato, colui che ha rinunciato a inseguire la propria professione per cause avverse, per sfiducia al sistema, per necessità.
Così Giovanni Bologna, 49 anni, 3 figli da sfamare:

Può sembrare paradossale, ma lavorare con la mia qualifica (operaio saldatore specializzato) non conviene, perché oggi per rispettare le norme di sicurezza le aziende devono spendere troppo e non ti mettono in regola.”

O Ismene Zumpano, 28 anni, la ragazza della copertina, qualche esperienza a nero come grafica pubblicitaria per sfruttare i suoi studi all’Istituto di arte e oggi segretaria:

“Questa è la realtà lavorativa, va accettata nei suoi lati positivi. Da grandi ci si deve ridimensionare. Non è andata, pazienza. Il mio sogno lo coltivo comunque, dipingo quadri."

· il calcolatore, colui che per interessi di vario genere sceglie di essere precario.
È il caso di Giovanna Bellacci, 50 anni, call center a Pistoia:

Divorziata, con un figlio da crescere e due genitori anziani da accudire, per me lavorare su un progetto ha significato poter gestire la famiglia grazie a una certa flessibilità negli orari che puoi contrattare cosa che non è scontata per un lavoratore dipendente.”

Stessa scelta, ma per motivi differenti, per Valerio Castellano, cameraman a tempo determinato a SkyTg24:

Mi affascina l’idea di poter fare questo lavoro. […] Mi è stato detto: niente posto fisso ma un trattamento economico adeguato alla sua professionalità e aggiornamento professionale garantito. […] Guadagno più di prima e ho imparato a fare l’operatore satellitare.”

Ma di fronte alla domanda “Precario e contento dunque?” risponde:

vabbè non esageriamo. […] Punto su me stesso. Se lo meriterò mi daranno questo benedetto posto fisso.”

· il prototipo del precario felice, espressione usata da Marco Fiori, 33 anni, addetto stampa, che descrive la propria situazione nei termini seguenti:

Fra pro e contro, sono i pro a vincere. Nettamente […] la libertà di mettersi in gioco giorno dopo giorno non ha prezzo. […] Il percariato ti costringe a puntare sulla qualità del lavoro. Proprio perché non hai certezze ogni giorno investi sulla tua professionalità.”

Però precisa:

“Serve un profilo professionale medio alto. Altrimenti ci credo che il precariato è difficile da gestire. Serve insomma un alta specializzazione perché è importante che il ritorno economico sia al di sopra della media.”

Nei casi presi in esame da Panorama dunque l’avere un lavoro flessibile è vissuto dagli intervistati come una condizione positiva semplicemente perché funzionale alle proprie esigenze: di vita, studentesche, professionali, economiche.
Eppure bisognerebbe andare oltre e riflettere piuttosto su tutti quei però spero, non è andata pazienza, vabbè non esageriamo… Queste espressioni, sia di rassegnazione che di speranza, sono sintomo infatti della necessità di non cadere vittima della cosiddetta trappola della precarietà, ossia il mancato passaggio a lavori stabili. Dati Istat rilevano che oltre il 55% dei lavoratori atipici assunti dopo il 1996 sono rimasti tali. A mettere in guardia sul dilagare del fenomeno sono gli stessi studiosi che si chiedono quali ripercussioni esso avrà sul sistema a lungo termine. Perché più che un uso si fa tutt’ora un abuso di quelle forme di assunzione regolamentate da una legge, la Biagi, nata paradossalmente proprio per “garantire trasparenza ed efficienza al mercato del lavoro e migliorare le capacità di inserimento professionale dei disoccupati e di quanti sono in cerca della prima occupazione, con particolare riguardo alle donne e ai giovani”.
Non dimentichiamolo! E soprattutto non lo dimentichino i datori di lavoro che vi ricorrono in maniera esasperante e reiterante. Se è vero infatti che una volta avviato e formato un individuo in un dato lavoro potrebbe essere meno proficuo sostituirlo piuttosto che assumerlo a tempo indeterminato, è altrettanto vero che il più delle volte si verifica l’esatto contrario. Con il risultato finale che l’occupazione temporaneamente aumenta ma, fra 10 anni, cosa succederà?
Come spiega Luciano Gallino, sociologo del lavoro all’Università di Torino, rispondere a un simile quesito non è facile. A suo avviso contare i precari è complicato. Ci sono i numeri del’Istat, dell’Ispol, ma si tratta sempre di dati parziali, riferibili solo a certi contratti dell’INPS e dell’INAIL.
Non a caso l’indagine conoscitiva pubblicata proprio dall’Istat nel novembre del 2006 e volta ad approfondire l’andamento del precariato nei precedenti 5 anni non è riuscita a darne un quadro completo, né in termini di dimensioni che di probabili cause. Ha tuttavia messo in luce che per l’88% dei lavoratori la temporaneità non è stata una scelta. Ciò a fronte del 55% per l’insieme dei paesi europei.
Segno che comunque la flessibilità contrattuale più che un’esigenza è una costrizione.