mercoledì 30 luglio 2008

Io ho da ridire

Ho scoperto Precari e contenti di Angela Padrone per caso, su google, navigando alla voce precari. Mi colpì subito il link al suo blog www.angelapadrone.blogspot.com perché quella parola a me tanto familiare era associata a un aggettivo per la mia esperienza inappropriato. La giornalista del Messaggero, nel libro, raccoglie storie di giovani che ce l’hanno fatta, storie “positive” per uscire, a suo dire, dai luoghi comuni. Quell’espressione mi diede fastidio.
Al di là della mia condizione che purtroppo è comune ma non nel senso che lei intende, esistono dati statistici che testimoniano in maniera esaustiva e schiacciante l’esistenza del problema più che del pregiudizio ideologico da esso derivante. Decisi che l’avrei acquistato e letto, non necessariamente per confutarlo quanto per conoscere l’altro rovescio della medaglia. L’ho fatto qualche settimana fa. Purtroppo già dal prologo ho qualcosa da ridire.
Il suo discorso ruota attorno alla convinzione che “con la flessibilità si deve e si può convivere”. Premesso che a mio avviso in tali circostanze il dovere dovrebbe essere una scelta del singolo, mentre il potere sarebbe più accettabile se effettivamente trasformabile in opportunità, non è di certo accettando la flessibilità come un obbligo che si evita di incorrere nella cosiddetta trappola della precarietà, di cui lei stessa ammette l’insorgere nella società post-moderna.
Insomma, leggendo ho avuto l’impressione che si cerchi di minimizzare gli aspetti-effetti negativi di ciò che lei definisce un “imbroglio ideologico, sociale e morale”, una “malattia da ceto medio”, “categoria mentale da ex studenti”. Una “disgrazia” - continua - che riguarda soprattutto i giovani di quella che un tempo si chiamava piccola e media borghesia, in quanto proprio loro mancano di determinazione o, addirittura, sono semplicemente sfortunati.
Bah… sarà! O sarà forse una questione di portafoglio? Non tutti possiamo permetterci master, stage o quant’altro richieda dispendio di energie, tempo, e soprattutto soldi, senza avere un sostegno economico. Non tutti abbiamo genitori disposti a mantenerci ancora dopo averlo fatto per anni per garantirci una laurea. Dopo questo agognato traguardo la scelta che si prospetta a noi ex studenti è un lavoro, anche precario.
Forse il vero pregiudizio lo si ha verso questi ragazzi che vengono rappresentati nei termini seguenti:

A ventitré anni sognano il salotto buono, la casa di proprietà, le vacanze organizzate e la pensione.

Troppo spesso loro stessi rassegnati a una società divisa in caste nella quale però non hanno più il posto pronto ad aspettarli.

Perché, prima lo avevano? Ripenso alle pagine di Vittorio Buttafava in La fortuna di vivere (Rizzoli Editore, 1982):

È un ragazzo di ventitré anni, tornato da poco dal militare. “Fate presto voi, che avete già vissuto la vita” dice quasi gridando “a consigliarci di stare tranquilli, di avere pazienza. Ma che cosa possiamo aspettarci? Ho preso la maturità, e mi hanno detto che quel pezzo di carta non contava niente. Ho fatto un corso di lingue, e pareva che a nessuno importasse del mio inglese e del mio tedesco. Ho imparato un po’ di elettronica presso l’azienda di un parente, ma guai a farmi illusioni; un posto per me non c’è e forse non ci sarà mai. Pazienza, voi dite, perché siete seduti in poltrona. Ma provate a stare in piedi, davanti a una porta chiusa, ad aspettare...”

Così l’autore commenta il racconto:

È qui la malattia dell’Italia d’oggi, in questa amarezza, in questa rassegnazione, in questa rabbia. E non è, purtroppo, solo una crisi di soldi o di lavoro.

Io dico: vada per l’amarezza e la rabbia, ma non per la rassegnazione. Siamo solo pratici. Dobbiamo esserlo, per esigenze. Rimboccarci le maniche, fare sacrifici, a noi no spaventa. È una prolungata incertezza per il futuro che non vogliamo. È il non poter far fruttare i nostri studi che non accettiamo. E non è detto che la preparazione o la determinazione bastino a farci realizzare i nostri progetti. Non ci interessano nè il salotto buono nè le vacanze organizzate, ma la casa di proprietà e la pensione sì. Per poter godere di una vita tranquilla, senza l’assillo di un affitto in scadenza e la preoccupazione di una vecchiaia incerta.
Non è forse la stessa giornalista a confidare di aver cominciato a mettere su casa proprio quando ha avuto la certezza si un lavoro sicuro? È pur vero che ammette di aver voluto rinunciare a quel “posto” quando le proposero di insegnare Storia e Filosofia in un liceo privato. Ovvio. Non avendo comunque responsabilità verso terzi, insomma potendo dare alla carriera priorità su tutto, è naturale pensare di prendere una simile decisione. Hai una passione, hai studiato per poterla realizzare, e quando si presenta l’opportunità, non avendo ribadisco altre necessità, non vorresti altro che buttarti a capofitto nel tuo sogno anche se da precaria. Non si può fare dunque dell’aut aut. E penso che si possa essere dei precari contenti solo se lo si è nel proprio settore di interesse e si è nelle condizioni di poter scegliere. In tutti gli altri casi, penso, avrei da ridire. Ma attendo di leggere le restanti 19 storie prima di aggiungere altro.

domenica 27 luglio 2008

Precari, Pdl difende norma.Sacconi prende distanze

Il governo si divide sulla cosiddetta norma anti-precari inserita nella manovra alla Camera e ora all'esame del Senato: il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha preso le distanze dalla norma che il Tesoro inserì nel suo maxi-emendamento e su cui chiese la fiducia a Montecitorio. Le opposizioni e i sindacati stigmatizzano la posizione ambigua dell'esecutivo e chiedono che la norma sia cambiata al Senato.
E le organizzazioni del lavoratori lanciano anche un allarme: la norma farebbe saltare l'accordo sui precari siglato con le Poste, l'azienda per la quale nasce la norma stessa. Ma il percorso più probabile, e condiviso tra i ministri, è quello che la manovra non venga modificata al Senato, ma intervenga un successivo decreto di correzione. Il presidente della commissione Bilancio del Senato, Antonio Azzollini, ha ironizzato sul fatto che sia esplosa una polemica solo oggi: "é curioso - ha detto - la norma è stata presentata e votata 20 giorni fa in commissione Bilancio alla Camera; poi è stata discussa in aula prima e dopo la fiducia". Sta di fatto che mentre il Pdl ha difeso la norma, con Italo Bocchino, Osvaldo Napoli e Daniele Capezzone, il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha fatto sapere di essere "distinto e distante" dalla contestata norma. Il ministro Renato Brunetta gli dà ragione, mentre i ministri Gianfranco Rotondi e Roberto Calderoli hanno disconosciuto la paternità dell'esecutivo: "la colpa è del Parlamento" ha detto Calderoli.
L'arcano sull'origine della norma è stato svelato da Gianfranco Conte (Pdl), presidente della commissione Finanze della Camera, e presentatore con la Lega dell'emendamento durante l'esame in Commissione alla Camera. Il loro intento era quello di aiutare le Poste, alle prese con il contenzioso di numerosi precari con cui sono stati siglati contratti irregolari. Racconto confermato da Pierpaolo Baretta, capogruppo del Pd in commissione, che si era battuto contro la norma. "Il governo - contesta l'ex sindacalista Cisl - non può fare Ponzio Pilato e lavarsene le mani. L'emendamento lo ha accolto e lo ha inserito nel maxi-emendamento su cui ha chiesto la fiducia". La richiesta al governo di cancellare al Senato la norma arriva unanime da tutte le opposizioni, parlamentari ed extraparlamentari: da Enrico Letta a Pierferdinando Casini, da Pierluigi Bersani a Silvana Mura di Idv, da Oliviero Diliberto a Roberto Fiore del Fronte nazionale.
Anche il sindacato fa sentire la sua voce con il segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni, che invita il governo "a non nascondere dietro un dito le proprie contraddizioni". E il segretario generale di Slc-Cgil, Emilio Miceli, lancia un allarme paradossale: la norma potrebbe far saltare l'accordo sottoscritto dalle Poste con i sindacati per la stabilizzazione dei precari. "La situazione nelle Poste era già preordinata e risolta - ha detto Miceli - e la sollecitudine del governo è quanto mai sospetta". Il ragionamento comune, esplicitato da Enrico Letta, ministro ombra del Welfare, è semplice: "Dal momento che il governo nega la paternità del grave emendamento, c'é una sola via d'uscita, semplice e lineare: il Senato elimini l'emendamento". Il punto è che il silenzio del Tesoro è assai eloquente. E lo spiega il presidente della commissione Bilancio del Senato, Azzollini: "al momento il governo non ha modificato la propria posizione, e cioé quella di portare a termine la manovra prima possibile". Il motivo è semplice: "se dice sì al cambiamento di uno dei contenuti della manovra, si aprono le cataratte" degli emendamenti. La soluzione riferita da Azzollini è quella di un successivo decreto alla manovra che la modifichi "di intesa con le parti sociali".
Soluzione che andrebbe bene anche a Sacconi. "L'intera materia andrà rivista - ha commentato Brunetta - e credo che il ministro Sacconi abbia la capacità e la sensibilità per farlo". Diverso il caso sull'articolo 60 della manovra, sulla flessibilità del Bilancio, che anche il Quirinale ha chiesto di ritoccare: "quella è una cosa diversa - osserva Azzollini - è un problema di natura tecnica, di procedura. Se il governo decide di modificarla, poi la manovra viene approvata in due giorni alla Camera in terza lettura". Domani alle 15 scade il termine per presentare gli emendamenti in commissione al Senato e il sottosegretario Giuseppe Vegas è atteso per la replica del governo.
CREMASCHI, ROMPERE CON CONFINDUSTRIA - "Il sindacato ha una sola risposta seria visto che il mandante" della norma sui precari contenuta nel maxi-emendamento del Governo "é la Confindustria. La risposta è rompere le trattative con la Marcegaglia e preparare un autunno di lotte per il salario e contro la precarietà". E' quanto sostiene il segretario nazionale della Fiom-Cgil, Giorgio Cremaschi. "Qualsiasi altra reazione - aggiunge - rientra nel regno delle chiacchiere. Lo scandalo improvviso sulla norma anti-precari è alquanto ipocrita in quanto questa norma era conosciuta da diverse settimane e alcuni di noi l'avevano con forza denunciata".
(di Giovanni Innamorati)
Ansa del27/07/2008

lunedì 21 luglio 2008

La mia rabbia è la loro?

A lavoro. Entra un venditore ambulante, un vu’ cumprà e, mostrandomi un telo mare, mi invita ad acquistarlo per garantirgli almeno un panino. Dico che non sono interessata e, con tono gentile, gli auguro comunque una buona giornata sperando di frenare così ogni sua potenziale insistenza. Tentativo fallito. Il tipo torna alla ricarica riprendendo a farmi lo stesso discorso ma io rimango impassibile nella mia posizione. Passa allora a chiedermi un’offerta, anche solo un euro. Mi implora quasi, e io, cercando di mantenere sempre un tono cortese seppur più deciso, rispondo con un secco no. Gli spiego che io, per guadagnare un solo euro, devo dapprima servire un cliente e poi sperare che ne spenda almeno trenta. Un vero colpo di fortuna considerando l’attuale trend delle vendite. Tutto inutile. Decide allora di far leva sui miei sentimenti dicendomi, con aria preoccupata, che ha due figli da sfamare. ALT! È proprio qui che perdo il mio self-control e la rabbia ha il soprevvento. Questa frase più la sento, più mi infastidisce. Cambio infatti subito atteggiamento affermando che io di figli non ne faccio proprio perché non potrei mantenerli.
So bene che spesso determinate situazioni non dipendono da noi. Che puoi ad esempio svegliarti una mattina con moglie, figli, senza lavoro e con notevoli difficoltà a trovarne un altro. Ma non ci riesco. Quella frase mi sa di calunnia. Difatti, il giorno seguente, altra zingara stesso discorso.
Perché non riesco a commuovermi alle loro parole?
Mi torna in mente una pagina di Luca Goldoni in Vita da bestie:
Anche perché stravedere per gli animali, a volte, svela aspetti mortificanti. Anni fa a San Francisco avevo osservato che quasi tutti i barboni avevano in grembo un cane o un gatto, impassibili come loro nella dignità di una miseria accettata. E non avevo pensato che si portassero dietro l’animale per richiamo, come le zingare per i lattanti dai piedini nudi in dicembre. Credo che in America pietà o indifferenza prescindano dall’immagine contingente.
Da noi non è così. Davanti a un grande magazzino staziona abitualmente una donna con il solito pezzo di cartone scritto in mezzo italiano, appoggiato a un cappello quasi sempre vuoto. Sento i commenti: quella è bosniaca come io sono cinese.
L’altra mattina, nel posto dove la figura nera è oramai inserita nell’arredo urbano, ho notato un insolito assembramento di massaie che si richiamavano con strilli di tenerezza: accanto alla donna c’era una cagnetta con tre cuccioli che succhiavano il latte. Dentro al cappello tintinnavano i centoni offerti dal repentino buon cuore. Con un colpo di ingegno la bosniaca aveva intuito quali corde toccare per commuovere i passanti
.”
Io stravedo per i bimbi ma sono come gli Americani.
Vorrei chiedere a queste persone di raccontarmi la loro storia. Non l’ho mai fatto. Appena do il mio rifiuto a qualunque loro richiesta si tramutano in viso. Diventano piene di rabbia. Perdono di verità. Almeno per me.

sabato 19 luglio 2008

Maleoccupati torna presto

Dopo la pausa non prevista Maleoccupati tornerà con post interessanti sul libro di Angela Padrone Precari e contenti. Storie di giovani che ce l'hanno fatta.

giovedì 3 luglio 2008

La flexicurity danese: un modello per l’Italia?

Apparteniamo alla categoria delle “generazioni flessibili”. Così titola il rapporto sull’occupazione edito dalla Fondazione Giacomo Brodolini per l’anno 2007. E aggiunge: “Nuove e vecchie forme di esclusione sociale”.
Il volume contiene 7 saggi che analizzano il problema della precarietà sociale, nonché il ruolo della formazione e del lavoro retribuito come strumenti di inclusione. In particolare Michele Raitano ed Elena Pisano, dottoranda in Economia politica a La Sapienza di Roma, discutono la possibilità di introdurre anche in Italia una “flessibilità sostenibile”, ossia un sistema che combini virtuosamente le richieste di flessibilità delle imprese con un’elevata protezione dei lavoratori in termini di ammortizzatori sociali, politiche attive e formazione professionale. Insomma, si chiedono se sia realizzabile anche da noi la flexicurity olandese, un modello basato sul cd. triangolo d’oro:
-
normativa permissiva in materia di licenziamenti;
- sussidi generosi in caso di disoccupazione;
- politiche efficaci di attivazione al lavoro.
Le conclusioni a cui giungono i due studiosi invitano alla cautela. Attualmente non ci sono i presupposti, in quanto un simile mercato espelle di frequente un elevato numero di lavoratori che devono non solo essere tutelati economicamente ma anche professionalmente, per salvaguardarli da un lato e incrementarne qualifiche e occupabilità dall’altro. Ne deriva che è necessaria l’assenza di ogni forma di segmentazione della forza lavoro in termini di tutele del welfare delle retribuzioni, rischi di intermittenza dell’attività, e accesso a corsi di formazione. Requisiti del tutto assenti nel nostro Paese.
Nell’ultimo decennio difatti, i principali interventi normativi volti a favorire il mercato del lavoro italiano, il Pacchetto Treu (legge 196 del 1997) e la Legge Biagi (legge 30 d3l 2003), si sono concentrati principalmente sugli aspetti contrattuali a discapito di quelli della protezione sociale. Ciò ha determinato in primis una segmentazione fra lavoratori a tempo indeterminato e temporanei: un elevato grado di protezione dell’occupazione distingue i primi dai secondi. Quest’ultimi poi si sono distinti fra dipendenti a tempo determinato e parasubordinati (collaboratori coordinati continuativi o a progetto), i quali non hanno diritto a nessuna forma di sussidio di disoccupazione. Tale segmentazione ha assunto col tempo dimensioni sempre più preoccupanti. Basti pensare che dal 2001 al 2006 la quota annua di nuove assunzioni con contratti a tempo indeterminato si è ridotta dal 60% al 46%, mentre dal 1996 al 2004 quella dei parasubordinati è raddoppiata, e dal 2000 al 2004 quella dei determinati è aumentata del 20%. Ciò si è verificato perché, come spiegano Muehlberger e Pasqua, i contratti atipici sono utilizzati da molti datori di lavoro come un modo economico per assumere temporaneamente giovani qualificati. Non a caso il 30% del personale parasubordinato risulta laureato a fronte del 12% di quello indeterminato. L’essere laureati tuttavia non incrementa le possibilità per i temporanei di transitare verso forme contrattuali indeterminate (Corsini, Guerrazzi). Di qui l’emergere della trappola della precarietà, ossia il rimanere intrappolati nello status di svantaggiato per un ampio periodo di tempo, durante il quale si è esclusi perfino dalle attività di formazione professionale attivate dalle imprese. Quindi non solo si vive nell’incertezza, ma si rischia addirittura di rimanere sprovvisti in futuro di adeguate conoscenze e/o competenze.
Bisognerebbe dunque prevedere un’adeguata spesa in termini di politiche sia attive che passive. Le prime per favorire l’ingresso nel mercato del lavoro a chi ne è uscito (i cd. lavoratori scoraggiati) o aiutare chi ha perso il posto a trovarne un altro o crearne uno nuovo; le seconde invece per sostenere finanziariamente i lavoratori che perdono reddito a causa di licenziamento o pensionamento anticipato.
In entrambi i casi pero il sistema italiano risulta deficitario. Nel 2004 la quota PIL destinata a tali voci era pari rispettivamente allo 0,55% e allo 0,76% a fronte di una media UE15 dello o,70% e dell’1,47%. La Danimarca invece registrava le percentuali più alte.
La flexicurity pertanto non potrebbe funzionare fino a quando tali limiti non saranno superati. Un’azione non facile.
Da un'indagine Eurosta del 1999 si evince che, in tema di politiche attive, solo il 24% delle imprese organizza corsi di formazione, a cui partecipa solo il 26% degli occupati, a fronte di una media comunitaria del 62%/40% e a valori superiori al 90%/50% in Danimarca e nei Paesi Nordici. Anche in tema di ammortizzatori sociali il rapporto non è differente. In Italia non si ha certo una copertura assicurative del 80-90% dell’ultimo reddito!
Inoltre due studiosi americani, Algan e Cahuc, in un articolo del 2005, sostengono che nei Paesi Scandinavi dove esiste un forte spirito pubblico la flexicurity funziona; mentre nei paesi dell’Europa Mediterranea, caratterizzati da una scarsa educazione civica, si rischia di incorrere in un abuso di aiuti pubblici. Insomma, si potrebbe scegliere di restare in una condizione di disoccupazione per ricevere il sussidio ma svolgere contemporaneamente lavori in nero. È pur vero che in Italia per poter usufruire di questo privilegio si devono svolgere attività in determinati enti in modo che, almeno teoricamente, non ci si possa dedicare ad altre. Il problema è che non ci si dedica neppure a trovare un nuovo lavoro, ma anzi si sviluppano aspettative di assunzione pur essendo “lavoratori socialmente utili”.
In conclusione, non solo le attuali forme di flessibilità sono pericolose, ma risulterebbe altrettanto pericoloso trasformarle in qualcosa di sostenibile.

Italia maglia nera per stipendi, occupazione - Ocse

Cattura l'attenzione il rapporto tra ore lavorate e stipendio medio. Un lavoratore italiano in media in un anno dedica al proprio impiego 1.824 ore (dato 2007). Lavorano più degli italiani, tra tutti i 30 paesi Ocse, soltanto i cechi, gli ungheresi, i lussemburghesi e i polacchi.
Ma gli stipendi sono magri, almeno rispetto ai colleghi stranieri. A parità di potere d'acquisto, un italiano in media nel 2006 ha guadagnato 29.844 dollari, rispetto ai 38.252 dell'Ocse e 34.651 della Ue-15. Lo stipendio italiano in termini reali è calato dello 0,2% nel 2006. Altre contrazioni si sono registrate soltanto in Germania (-0,3%), Portogallo (-2,6%), Spagnia (-0,7%) e Paesi Bassi (-0,1%), contro una crescita dell'1,1% nell'area Ocse e dello 0,4% nella Ue-15.
Solo altri sette paesi stanno peggio o come l'Italia in termini di stipendio. Sono la Repubblica Ceca e quella Slovacca, l'Ungheria, la Polonia, il Portogallo, la Spagna e la Grecia.

TASSO OCCUPAZIONE BASSO TRA LE DONNE
Solo il 46% delle donne italiane può vantare un impiego e il tasso di occupazione femminile è molto basso anche nella fascia di età più attiva (25-54 anni), al 59,6%, il terzo peggiore nei paesi Ocse, dopo Messico e Turchia.
Secondo lo studio "la scarsa occupazione femminile è innazittutto il risultato della debole partecipazione delle donne italiane al mercato del lavoro, dovuta all'inadeguatezza delle politiche di sviluppo delle infrastrutture per l'infanzia e all'insufficienza delle detrazioni fiscali a favore di coppie multi-reddito".
Inoltre, le italiane guadagnano in media il 18% in meno rispetto ai colleghi maschi per ora lavorata. "Persistenti pratiche discriminatorie nel mercato del lavoro sono un fattore chiave alla base di queste disparità".
E non sembra aiutare la condizione delle lavoratrici italiane il ricorso al part-time, pari al 15,1% sul totale occupazione (dato 2007), rispetto al 15,4% della media Ocse e al 18,1% di quella Ue-15, con una punta del 36,1% nei Paesi Bassi.
Reuters del 02/07/2008