venerdì 30 maggio 2008

Una mala occupazione accettabile. Parte prima.

9 novembre 2006 – ANSA- 7 studenti lavoratori su 10 occupati in nero. Un anno dopo, nel 2007, anch’io sarei rientrata, mio malgrado, in quel campione.
Dopo l’esperienza del servizio civile nazionale, mi misi alla ricerca di un lavoro. Non avevo particolari esigenze economiche. I miei mi mantenevano volentieri all’università. Piuttosto sentivo l’esigenza di distrarmi dalla solita routine giornaliera fatta di studio, studio, e soltanto studio.
All’inizio pensai a un part-time. Evidentemente, da inesperiente, non avevo valutato attentamente la realtà locale: già era difficile trovare un impiego, figuriamoci poi uno conforme alle proprie esigenze!
Con un diploma di maturità classica, nessuna qualifica e una laurea da completare, dovevo solo incrociare le dita ed eventualmente adattarmi. Come confermato più volte in seguito, conoscere le persone giuste può essere un fattore determinante. Paradossalmente, anche per il lavoro più mal pagato, mal appagante, mal mal di questo mondo, una leggera spintarella non guasta.
Così tra passaparola, annunci, e appunto agganci, vengo presentata al titolare di una palestra alla ricerca di una receptionist. Ovviamente poco importava il mio curriculum. Perché, a parte le ore di educazione fisica alle superiori, le mie referenze in materia erano pari a zero. Comunque, come mi fu spiegato il primo giorno, avrei dovuto semplicemente occuparmi dell’apertura e della chiusura dei locali, della pulizia, della tenuta del registro soci e contabile e dell’accoglienza dei clienti.
Lavoravo tutti i giorni mattina e pomeriggio, tranne il martedì e il giovedì mezza giornata. Sfruttavo la restante, i ritagli di tempo che riuscivo a concedermi a lavoro a suon di musica o nelle notti insonni , per studiare. La domenica non era per me né il giorno del riposo né del Signore. Sono riuscita tuttavia a sostenere gli ultimi 3 esami con ottimi voti e con una soddisfazione personale di cui vado fiera tuttora.
La paga era buona: intorno alle 400 euro. Nessun contratto.
È stato un periodo davvero edificante, soddisfacente. Forse, calcolando le ore effettive (44 ore settimanali circa) e le mansioni svolte mi sarebbe spettato qualcosina in più. Ma non importava: avevo altri progetti. Purtroppo devo ancora realizzarli!

giovedì 22 maggio 2008

Che paese infame l’Italia!

Ho voluto titolare questo post con l’esclamazione di chiusura del commento rilasciato da un anonimo qualche giorno fa. Ho riflettuto molto sulle sue parole, cercando di capirne il perché. Non è stato difficile, in fondo già sapevo. Oggi ho deciso di farlo a voce alta affinché sia lui che altri possano ribattere al mio pensiero.
La rabbia racchiusa in quelle poche righe è la stessa che cova dentro di me.
Penso di averle lette con lo stesso pathos di chi le ha scritte, nonostante abbiamo due modi differenti di affrontare una medesima situazione.
Anch’io sono laureata, con il massimo dei voti aggiungo. Una laurea sudata fin dal momento in cui ho scelto il corso: giornalismo. Mia madre non era d’accordo. Ho raggiunto il traguardo quasi in tempo, con un’adrenalina dentro che mi faceva ben sperare. Dopo i primi curricula inviati a vuoti iniziai a rassegnarmi.
Attualmente sono commessa in un negozio di abbigliamento, in nero e sottopagata.
La rassegnazione iniziale è andata sempre più scemando.
Io non mollo! Io non rinuncio a ciò che amo fare, per cui ho studiato con sacrificio, da cui non riesco a tenermi lontana. Ho tentato, non lo nego. Invano. Ho rischiato di spegnermi lentamente.
Ad altri lavori, anche più “in regola”, invece sì che ho rinunciato!
Io non sono una sognatrice. Anzi, sono fin troppo realista, pratica, calcolatrice se serve.
Se c’è da aspettare, aspetto. Ho pazienza in compenso. Non molta, ma abbastanza.
Capisco tuttavia le ragioni di chi a 30 anni e con tanto di referenze sostiene fermamente: meglio precari che disoccupati. Amaramente, con quella stessa amarezza che racchiude una simile affermazione, dico: ha le sue ragioni.
Non saprei neppure restare in silenzio. No. Io non ci riuscirei.
Se vuoi sopravvivere a questa realtà devi adeguarti. È questa la vera trappola! Il nostro tallone d’Achille.

domenica 18 maggio 2008

Precari impotenti anche fra le lenzuola (parte seconda)

La notizia riportata dall’Ansa sui precari a rischio impotenza dovrebbe far riflettere sulla gravità di una condizione figlia del lavoro flessibile.
Sono sicuramente lodevoli tutti quei contributi giornalistici, editoriali e simili, che continuano a metterne in luce gli aspetti positivi, ma ciò non dovrebbe distogliere l’attenzione da quelli negativi. Se i primi, è innegabile, ci sono, i secondi purtroppo continuano ad aumentare a dismisura.
I precari esistono. Non sono frutto di luoghi comuni, di pregiudizi ideologici, come spesso si sente o si legge nei media. La loro situazione va analizzata, inquadrata, risolta (quasi) definitivamente. Si sa, ogni albero ha le sue mele marce. Eppure l’agricoltore non si prende forse cura della pianta affinché siano il meno possibile? Insomma, rispetto alle finalità iniziali per cui erano state introdotte e poi regolamentate le varie forme di temporaneo, oggi, si è andato un po’ troppo oltre. Se da un lato infatti le norme in materia di promozione dell'occupazione hanno centrato il loro obiettivo, dall’altro molte frecce non sono andate a segno e rischiano addirittura di fare feriti, sia in ambito lavorativo che sociale. I più colpiti sono le fasce deboli, i giovani in particolare, le cui prospettive di vita diventano ancora più insoddisfacenti. Proprio loro che dovrebbero essere e sono il futuro del nostro paese! Un futuro che si rigenera nelle famiglie. Ma senza stabilità economica l’unica certezza è il niente: niente casa, niente figli, niente di niente. Nondimeno la nostra Costituzione all’articolo 31 afferma: “La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi.” Ditemi come. Con aiuti in assegno o similari?
Garantendo un posto di lavoro serio otterrebbe risultati certamente più apprezzabili, proficui e meno onerosi, perché darebbe autonomia, certezze, stabilità, a chi quella famiglia deve mantenerla. E invece preferisce prendere soltanto misure temporaneamente necessarie ad arginare questo o quell’aspetto della questione, senza mai affrontarla di petto e porvi fine, qualunque sia il costo da sostenere. In fin dei conti, considerando che i rischi a cui si va incontro non prestando la dovuta attenzione a quella che potremmo definire una deviazione rispetto alle finalità legislative non sono né pochi né indifferenti, forse una presa di posizione più decisa non sarebbe così dolorosa o insostenibile come si pensa.

mercoledì 14 maggio 2008

Precari impotenti anche fra le lenzuola

ROMA - Non bastavano il contratto a tempo determinato, le difficoltà nel comprare casa e nel mettere su famiglia. I giovani precari sarebbero anche a rischio impotenza: a sostenerlo è Marco Carini, direttore della Clinica urologica di Firenze, che a margine della conferenza per i cento anni della Società italiana di urologia (Siu) ha sottolineato come i fattori di incertezza tipici dei precari possano causare eiaculazione precoce e disfunzione erettile. Il problema dell'eiaculazione precoce, come ricorda l'esperto, colpisce il 25-30% dei giovani, mentre la disfunzione erettile interessa il 35% degli uomini sotto i 35 anni e il 47% di quelli sopra i 36. "Per i più giovani - spiega Carini - la precarietà del lavoro, le difficoltà economiche, l'impossibilità di creare una famiglia sono fonte di ansia e stress, e possono avere serie ripercussioni sulla vita sessuale". Se a queste incertezze si somma poi anche la mancanza di un partner stabile, "allora - continua Carini - allo stress si va ad aggiungere l'ansia da prestazione che si può scatenare con i rapporti occasionali".

Ansa del 14-05-2008

domenica 11 maggio 2008

Teoria confermata dunque?

Che la trappola della precarietà non fosse una di quelle solite teorie formulate da sociologi allarmisti oggi ne abbiamo conferma.
Se i dati elaborati finora dagli istituti di ricerca, per quanto attendibili, sono stati sempre etichettati come inadeguati ad analizzare la vera natura del fenomeno date le difficoltà nel reperirli, quelli emersi da una ricerca di prossima pubblicazione sembrerebbero molto più esaurienti.
Dal 1999, per ben 7 anni, lo studioso Michele Raitano ha seguito 1.103 lavoratori atipici giungendo alla conclusione che “per le donne, i meno giovani, i meno istruiti... lo status di parasubordinato o di lavoratore temporaneo… non appare per nulla semplicemente transitorio… ma nella maggior parte dei casi persistente.”
L’analisi si basa su microdati di fonte amministrativa dell’archivio di gestione separata dell’Inps, quella per intenderci a cui versano i contributi i collaboratori.
Un campione dunque fortemente rappresentativo poichè non derivante da criteri più o meno estemporanei o cervellotici.
Ne riparleremo comunque a giugno, quando potremo prendere visione completa del lavoro svolto da Raitano. Sarà infatti contenuto nel Rapporto sullo stato sociale curato dalla Fondazione Giacomo Brodolini, un progetto europeo di analisi dell’occupazione.

giovedì 8 maggio 2008

Panorama n° 8 del 21/02/2008

PRECARIO NON E' BELLO

Esprimo il mio disappunto per la vostra indagine sulla precarietà del lavoro giovanile su Panorama 52.
Potrebbe essere apprezzabile l’idea di sdrammatizzare un argomento così delicato come il precariato. Ma sono costretto a ritenere che o gli intervistati sono degli alieni (ci sono dichiarazioni che lasciano veramente perplessi: una su tante, quella di un certo Marco Fiori da Modena, che ha scelto il ruolo di precario rifiutando varie volte di essere assunto a tempo indeterminato) o il campione d’indagine non è rappresentativo dalla realtà lavorativa giovanile.
Ma come si fa a dire che ci sono dei pro in un contratto a progetto se le banche per un mutuo casa vogliono le ultime tre buste paga e un contratto di lavoro da almeno due anni?
Avrei apprezzato di più se alla fine dell’articolo ci fosse stata una tirata di orecchie al nostro Paese e alla nostra classe politica.

Agostino Alla, via e-mail

Meglio precari che disoccupati?

Su 4.500.000 atipici 3.000.000 sono occupati a termine, autonomi o collaboratori a progetto, mentre i restanti 1.000.000 o sono part-time o non conoscono la propria forma contrattuale o non la vogliono rivelare.
Un dato, quest’ultimo, davvero preoccupante per la tipologia di lavoratore che racchiude. Tralasciando per un momento chi si trincea dietro la propria privacy, mi stupisco che esistano ancor oggi persone che prima di intraprendere una qualunque attività non discutano i termini di svolgimento della stessa. Ossia fanno un lavoro per cui percepiscono uno stipendio ma non sono informate sulle regole che lo tutelano e dunque li tutelano. Un po’ inverosimile come situazione!
Ovviamente anche il non voler rivelare la propria condizione lavorativa dà sempre adito a strani pensieri (perché? cosa c’è da nascondere?) ma aderisce molto più alla realtà. Insomma, anch’io ho dato risposte evasive, però in fondo sapevo il fatto mio! Immaginiamoci ora un 1.000.000 di lavoratori che di fronte a una domanda apparentemente innocua fanno altrettanto. Vien da pensare o no?
I dati emergono dall’ultimo rapporto Isfol sul lavoro 2007 e sono stati riportati, ancora una volta, in un’inchiesta di Panorama del 26/12/2007.
Ma attenzione, la mia non vuol essere un’analisi di parte. Tutt’altro. Critica. Vi spiego. Aprire un blog su un tema così delicato e sfaccettato come il precariato è stata una scelta dettata dall’esigenza di analizzare un fenomeno al di là della mia personale esperienza. Perché da laureata sottopagata e senza tutele quando vedo sulla copertina del settimanale diretto da Maurizio Belpietro l’immagine di una ragazza sorridente e la didascalia recitare

VI SEMBRO
PRECARIA?
NIENTE POSTO FISSO,
MENO GARANZIE:
5 MILIONI DI LAVORATORI ITALIANI
HANNO ORMAI UN IMPIEGO FLESSIBILE.
MOLTI PERO’ NON SI LAMENTANO.
STORIE DI CHI CON
IL CONTRATTO A TERMINE
A IMPARATO A VIVERE BENE

comincio a storcere naso, bocca e tutti i muscoli facciali. Non capisco. Possibile? mi chiedo. No!
Spulciando ben benino il servizio noto infatti che mi è stata data una chiave di lettura errata. Si tratta di una soddisfazione che va contestualizzata. Altrimenti si rischia di ricevere un’immagine imprecisa del fenomeno.
Fra le storie raccontate ho individuato 3 tipologie di lavoratori:

· lo studente che, in quanto tale, momentaneamente non aspira al posto fisso. Ha altri progetti per il futuro, ossia far fruttare i propri studi.
Una filosofia perfettamente sintetizzata nelle parole di Alessandro Anzolin, 26 anni, laureando in ingegneria elettronica e magazziniere per tre ore la sera dal lunedì al venerdì:

Dico grazie ai lavori precari. Mi sono serviti per pagarmi l’università. […] La mattina frequento l’università, il pomeriggio studio, dalle 18:30 alle 21:30 sono al lavoro. Guadagno 500 euro al mese, ma queste esperienze sono state per me molto positive, l’ideale per inserirsi nel mondo del lavoro pur continuando a studiare. […] In futuro però spero di trovare un posto come ingegnere.”

Lo stesso vale per Manuel Incorvaia, 20 anni, cassiere al Burger King:

Vorrei lavorare sul trucco cinematografico o teatrale. Per inviare curriculum però serve un corso serio e così cerco di risparmiare.”

· il rassegnato, colui che ha rinunciato a inseguire la propria professione per cause avverse, per sfiducia al sistema, per necessità.
Così Giovanni Bologna, 49 anni, 3 figli da sfamare:

Può sembrare paradossale, ma lavorare con la mia qualifica (operaio saldatore specializzato) non conviene, perché oggi per rispettare le norme di sicurezza le aziende devono spendere troppo e non ti mettono in regola.”

O Ismene Zumpano, 28 anni, la ragazza della copertina, qualche esperienza a nero come grafica pubblicitaria per sfruttare i suoi studi all’Istituto di arte e oggi segretaria:

“Questa è la realtà lavorativa, va accettata nei suoi lati positivi. Da grandi ci si deve ridimensionare. Non è andata, pazienza. Il mio sogno lo coltivo comunque, dipingo quadri."

· il calcolatore, colui che per interessi di vario genere sceglie di essere precario.
È il caso di Giovanna Bellacci, 50 anni, call center a Pistoia:

Divorziata, con un figlio da crescere e due genitori anziani da accudire, per me lavorare su un progetto ha significato poter gestire la famiglia grazie a una certa flessibilità negli orari che puoi contrattare cosa che non è scontata per un lavoratore dipendente.”

Stessa scelta, ma per motivi differenti, per Valerio Castellano, cameraman a tempo determinato a SkyTg24:

Mi affascina l’idea di poter fare questo lavoro. […] Mi è stato detto: niente posto fisso ma un trattamento economico adeguato alla sua professionalità e aggiornamento professionale garantito. […] Guadagno più di prima e ho imparato a fare l’operatore satellitare.”

Ma di fronte alla domanda “Precario e contento dunque?” risponde:

vabbè non esageriamo. […] Punto su me stesso. Se lo meriterò mi daranno questo benedetto posto fisso.”

· il prototipo del precario felice, espressione usata da Marco Fiori, 33 anni, addetto stampa, che descrive la propria situazione nei termini seguenti:

Fra pro e contro, sono i pro a vincere. Nettamente […] la libertà di mettersi in gioco giorno dopo giorno non ha prezzo. […] Il percariato ti costringe a puntare sulla qualità del lavoro. Proprio perché non hai certezze ogni giorno investi sulla tua professionalità.”

Però precisa:

“Serve un profilo professionale medio alto. Altrimenti ci credo che il precariato è difficile da gestire. Serve insomma un alta specializzazione perché è importante che il ritorno economico sia al di sopra della media.”

Nei casi presi in esame da Panorama dunque l’avere un lavoro flessibile è vissuto dagli intervistati come una condizione positiva semplicemente perché funzionale alle proprie esigenze: di vita, studentesche, professionali, economiche.
Eppure bisognerebbe andare oltre e riflettere piuttosto su tutti quei però spero, non è andata pazienza, vabbè non esageriamo… Queste espressioni, sia di rassegnazione che di speranza, sono sintomo infatti della necessità di non cadere vittima della cosiddetta trappola della precarietà, ossia il mancato passaggio a lavori stabili. Dati Istat rilevano che oltre il 55% dei lavoratori atipici assunti dopo il 1996 sono rimasti tali. A mettere in guardia sul dilagare del fenomeno sono gli stessi studiosi che si chiedono quali ripercussioni esso avrà sul sistema a lungo termine. Perché più che un uso si fa tutt’ora un abuso di quelle forme di assunzione regolamentate da una legge, la Biagi, nata paradossalmente proprio per “garantire trasparenza ed efficienza al mercato del lavoro e migliorare le capacità di inserimento professionale dei disoccupati e di quanti sono in cerca della prima occupazione, con particolare riguardo alle donne e ai giovani”.
Non dimentichiamolo! E soprattutto non lo dimentichino i datori di lavoro che vi ricorrono in maniera esasperante e reiterante. Se è vero infatti che una volta avviato e formato un individuo in un dato lavoro potrebbe essere meno proficuo sostituirlo piuttosto che assumerlo a tempo indeterminato, è altrettanto vero che il più delle volte si verifica l’esatto contrario. Con il risultato finale che l’occupazione temporaneamente aumenta ma, fra 10 anni, cosa succederà?
Come spiega Luciano Gallino, sociologo del lavoro all’Università di Torino, rispondere a un simile quesito non è facile. A suo avviso contare i precari è complicato. Ci sono i numeri del’Istat, dell’Ispol, ma si tratta sempre di dati parziali, riferibili solo a certi contratti dell’INPS e dell’INAIL.
Non a caso l’indagine conoscitiva pubblicata proprio dall’Istat nel novembre del 2006 e volta ad approfondire l’andamento del precariato nei precedenti 5 anni non è riuscita a darne un quadro completo, né in termini di dimensioni che di probabili cause. Ha tuttavia messo in luce che per l’88% dei lavoratori la temporaneità non è stata una scelta. Ciò a fronte del 55% per l’insieme dei paesi europei.
Segno che comunque la flessibilità contrattuale più che un’esigenza è una costrizione.