giovedì 8 maggio 2008

Meglio precari che disoccupati?

Su 4.500.000 atipici 3.000.000 sono occupati a termine, autonomi o collaboratori a progetto, mentre i restanti 1.000.000 o sono part-time o non conoscono la propria forma contrattuale o non la vogliono rivelare.
Un dato, quest’ultimo, davvero preoccupante per la tipologia di lavoratore che racchiude. Tralasciando per un momento chi si trincea dietro la propria privacy, mi stupisco che esistano ancor oggi persone che prima di intraprendere una qualunque attività non discutano i termini di svolgimento della stessa. Ossia fanno un lavoro per cui percepiscono uno stipendio ma non sono informate sulle regole che lo tutelano e dunque li tutelano. Un po’ inverosimile come situazione!
Ovviamente anche il non voler rivelare la propria condizione lavorativa dà sempre adito a strani pensieri (perché? cosa c’è da nascondere?) ma aderisce molto più alla realtà. Insomma, anch’io ho dato risposte evasive, però in fondo sapevo il fatto mio! Immaginiamoci ora un 1.000.000 di lavoratori che di fronte a una domanda apparentemente innocua fanno altrettanto. Vien da pensare o no?
I dati emergono dall’ultimo rapporto Isfol sul lavoro 2007 e sono stati riportati, ancora una volta, in un’inchiesta di Panorama del 26/12/2007.
Ma attenzione, la mia non vuol essere un’analisi di parte. Tutt’altro. Critica. Vi spiego. Aprire un blog su un tema così delicato e sfaccettato come il precariato è stata una scelta dettata dall’esigenza di analizzare un fenomeno al di là della mia personale esperienza. Perché da laureata sottopagata e senza tutele quando vedo sulla copertina del settimanale diretto da Maurizio Belpietro l’immagine di una ragazza sorridente e la didascalia recitare

VI SEMBRO
PRECARIA?
NIENTE POSTO FISSO,
MENO GARANZIE:
5 MILIONI DI LAVORATORI ITALIANI
HANNO ORMAI UN IMPIEGO FLESSIBILE.
MOLTI PERO’ NON SI LAMENTANO.
STORIE DI CHI CON
IL CONTRATTO A TERMINE
A IMPARATO A VIVERE BENE

comincio a storcere naso, bocca e tutti i muscoli facciali. Non capisco. Possibile? mi chiedo. No!
Spulciando ben benino il servizio noto infatti che mi è stata data una chiave di lettura errata. Si tratta di una soddisfazione che va contestualizzata. Altrimenti si rischia di ricevere un’immagine imprecisa del fenomeno.
Fra le storie raccontate ho individuato 3 tipologie di lavoratori:

· lo studente che, in quanto tale, momentaneamente non aspira al posto fisso. Ha altri progetti per il futuro, ossia far fruttare i propri studi.
Una filosofia perfettamente sintetizzata nelle parole di Alessandro Anzolin, 26 anni, laureando in ingegneria elettronica e magazziniere per tre ore la sera dal lunedì al venerdì:

Dico grazie ai lavori precari. Mi sono serviti per pagarmi l’università. […] La mattina frequento l’università, il pomeriggio studio, dalle 18:30 alle 21:30 sono al lavoro. Guadagno 500 euro al mese, ma queste esperienze sono state per me molto positive, l’ideale per inserirsi nel mondo del lavoro pur continuando a studiare. […] In futuro però spero di trovare un posto come ingegnere.”

Lo stesso vale per Manuel Incorvaia, 20 anni, cassiere al Burger King:

Vorrei lavorare sul trucco cinematografico o teatrale. Per inviare curriculum però serve un corso serio e così cerco di risparmiare.”

· il rassegnato, colui che ha rinunciato a inseguire la propria professione per cause avverse, per sfiducia al sistema, per necessità.
Così Giovanni Bologna, 49 anni, 3 figli da sfamare:

Può sembrare paradossale, ma lavorare con la mia qualifica (operaio saldatore specializzato) non conviene, perché oggi per rispettare le norme di sicurezza le aziende devono spendere troppo e non ti mettono in regola.”

O Ismene Zumpano, 28 anni, la ragazza della copertina, qualche esperienza a nero come grafica pubblicitaria per sfruttare i suoi studi all’Istituto di arte e oggi segretaria:

“Questa è la realtà lavorativa, va accettata nei suoi lati positivi. Da grandi ci si deve ridimensionare. Non è andata, pazienza. Il mio sogno lo coltivo comunque, dipingo quadri."

· il calcolatore, colui che per interessi di vario genere sceglie di essere precario.
È il caso di Giovanna Bellacci, 50 anni, call center a Pistoia:

Divorziata, con un figlio da crescere e due genitori anziani da accudire, per me lavorare su un progetto ha significato poter gestire la famiglia grazie a una certa flessibilità negli orari che puoi contrattare cosa che non è scontata per un lavoratore dipendente.”

Stessa scelta, ma per motivi differenti, per Valerio Castellano, cameraman a tempo determinato a SkyTg24:

Mi affascina l’idea di poter fare questo lavoro. […] Mi è stato detto: niente posto fisso ma un trattamento economico adeguato alla sua professionalità e aggiornamento professionale garantito. […] Guadagno più di prima e ho imparato a fare l’operatore satellitare.”

Ma di fronte alla domanda “Precario e contento dunque?” risponde:

vabbè non esageriamo. […] Punto su me stesso. Se lo meriterò mi daranno questo benedetto posto fisso.”

· il prototipo del precario felice, espressione usata da Marco Fiori, 33 anni, addetto stampa, che descrive la propria situazione nei termini seguenti:

Fra pro e contro, sono i pro a vincere. Nettamente […] la libertà di mettersi in gioco giorno dopo giorno non ha prezzo. […] Il percariato ti costringe a puntare sulla qualità del lavoro. Proprio perché non hai certezze ogni giorno investi sulla tua professionalità.”

Però precisa:

“Serve un profilo professionale medio alto. Altrimenti ci credo che il precariato è difficile da gestire. Serve insomma un alta specializzazione perché è importante che il ritorno economico sia al di sopra della media.”

Nei casi presi in esame da Panorama dunque l’avere un lavoro flessibile è vissuto dagli intervistati come una condizione positiva semplicemente perché funzionale alle proprie esigenze: di vita, studentesche, professionali, economiche.
Eppure bisognerebbe andare oltre e riflettere piuttosto su tutti quei però spero, non è andata pazienza, vabbè non esageriamo… Queste espressioni, sia di rassegnazione che di speranza, sono sintomo infatti della necessità di non cadere vittima della cosiddetta trappola della precarietà, ossia il mancato passaggio a lavori stabili. Dati Istat rilevano che oltre il 55% dei lavoratori atipici assunti dopo il 1996 sono rimasti tali. A mettere in guardia sul dilagare del fenomeno sono gli stessi studiosi che si chiedono quali ripercussioni esso avrà sul sistema a lungo termine. Perché più che un uso si fa tutt’ora un abuso di quelle forme di assunzione regolamentate da una legge, la Biagi, nata paradossalmente proprio per “garantire trasparenza ed efficienza al mercato del lavoro e migliorare le capacità di inserimento professionale dei disoccupati e di quanti sono in cerca della prima occupazione, con particolare riguardo alle donne e ai giovani”.
Non dimentichiamolo! E soprattutto non lo dimentichino i datori di lavoro che vi ricorrono in maniera esasperante e reiterante. Se è vero infatti che una volta avviato e formato un individuo in un dato lavoro potrebbe essere meno proficuo sostituirlo piuttosto che assumerlo a tempo indeterminato, è altrettanto vero che il più delle volte si verifica l’esatto contrario. Con il risultato finale che l’occupazione temporaneamente aumenta ma, fra 10 anni, cosa succederà?
Come spiega Luciano Gallino, sociologo del lavoro all’Università di Torino, rispondere a un simile quesito non è facile. A suo avviso contare i precari è complicato. Ci sono i numeri del’Istat, dell’Ispol, ma si tratta sempre di dati parziali, riferibili solo a certi contratti dell’INPS e dell’INAIL.
Non a caso l’indagine conoscitiva pubblicata proprio dall’Istat nel novembre del 2006 e volta ad approfondire l’andamento del precariato nei precedenti 5 anni non è riuscita a darne un quadro completo, né in termini di dimensioni che di probabili cause. Ha tuttavia messo in luce che per l’88% dei lavoratori la temporaneità non è stata una scelta. Ciò a fronte del 55% per l’insieme dei paesi europei.
Segno che comunque la flessibilità contrattuale più che un’esigenza è una costrizione.

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