giovedì 3 luglio 2008

La flexicurity danese: un modello per l’Italia?

Apparteniamo alla categoria delle “generazioni flessibili”. Così titola il rapporto sull’occupazione edito dalla Fondazione Giacomo Brodolini per l’anno 2007. E aggiunge: “Nuove e vecchie forme di esclusione sociale”.
Il volume contiene 7 saggi che analizzano il problema della precarietà sociale, nonché il ruolo della formazione e del lavoro retribuito come strumenti di inclusione. In particolare Michele Raitano ed Elena Pisano, dottoranda in Economia politica a La Sapienza di Roma, discutono la possibilità di introdurre anche in Italia una “flessibilità sostenibile”, ossia un sistema che combini virtuosamente le richieste di flessibilità delle imprese con un’elevata protezione dei lavoratori in termini di ammortizzatori sociali, politiche attive e formazione professionale. Insomma, si chiedono se sia realizzabile anche da noi la flexicurity olandese, un modello basato sul cd. triangolo d’oro:
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normativa permissiva in materia di licenziamenti;
- sussidi generosi in caso di disoccupazione;
- politiche efficaci di attivazione al lavoro.
Le conclusioni a cui giungono i due studiosi invitano alla cautela. Attualmente non ci sono i presupposti, in quanto un simile mercato espelle di frequente un elevato numero di lavoratori che devono non solo essere tutelati economicamente ma anche professionalmente, per salvaguardarli da un lato e incrementarne qualifiche e occupabilità dall’altro. Ne deriva che è necessaria l’assenza di ogni forma di segmentazione della forza lavoro in termini di tutele del welfare delle retribuzioni, rischi di intermittenza dell’attività, e accesso a corsi di formazione. Requisiti del tutto assenti nel nostro Paese.
Nell’ultimo decennio difatti, i principali interventi normativi volti a favorire il mercato del lavoro italiano, il Pacchetto Treu (legge 196 del 1997) e la Legge Biagi (legge 30 d3l 2003), si sono concentrati principalmente sugli aspetti contrattuali a discapito di quelli della protezione sociale. Ciò ha determinato in primis una segmentazione fra lavoratori a tempo indeterminato e temporanei: un elevato grado di protezione dell’occupazione distingue i primi dai secondi. Quest’ultimi poi si sono distinti fra dipendenti a tempo determinato e parasubordinati (collaboratori coordinati continuativi o a progetto), i quali non hanno diritto a nessuna forma di sussidio di disoccupazione. Tale segmentazione ha assunto col tempo dimensioni sempre più preoccupanti. Basti pensare che dal 2001 al 2006 la quota annua di nuove assunzioni con contratti a tempo indeterminato si è ridotta dal 60% al 46%, mentre dal 1996 al 2004 quella dei parasubordinati è raddoppiata, e dal 2000 al 2004 quella dei determinati è aumentata del 20%. Ciò si è verificato perché, come spiegano Muehlberger e Pasqua, i contratti atipici sono utilizzati da molti datori di lavoro come un modo economico per assumere temporaneamente giovani qualificati. Non a caso il 30% del personale parasubordinato risulta laureato a fronte del 12% di quello indeterminato. L’essere laureati tuttavia non incrementa le possibilità per i temporanei di transitare verso forme contrattuali indeterminate (Corsini, Guerrazzi). Di qui l’emergere della trappola della precarietà, ossia il rimanere intrappolati nello status di svantaggiato per un ampio periodo di tempo, durante il quale si è esclusi perfino dalle attività di formazione professionale attivate dalle imprese. Quindi non solo si vive nell’incertezza, ma si rischia addirittura di rimanere sprovvisti in futuro di adeguate conoscenze e/o competenze.
Bisognerebbe dunque prevedere un’adeguata spesa in termini di politiche sia attive che passive. Le prime per favorire l’ingresso nel mercato del lavoro a chi ne è uscito (i cd. lavoratori scoraggiati) o aiutare chi ha perso il posto a trovarne un altro o crearne uno nuovo; le seconde invece per sostenere finanziariamente i lavoratori che perdono reddito a causa di licenziamento o pensionamento anticipato.
In entrambi i casi pero il sistema italiano risulta deficitario. Nel 2004 la quota PIL destinata a tali voci era pari rispettivamente allo 0,55% e allo 0,76% a fronte di una media UE15 dello o,70% e dell’1,47%. La Danimarca invece registrava le percentuali più alte.
La flexicurity pertanto non potrebbe funzionare fino a quando tali limiti non saranno superati. Un’azione non facile.
Da un'indagine Eurosta del 1999 si evince che, in tema di politiche attive, solo il 24% delle imprese organizza corsi di formazione, a cui partecipa solo il 26% degli occupati, a fronte di una media comunitaria del 62%/40% e a valori superiori al 90%/50% in Danimarca e nei Paesi Nordici. Anche in tema di ammortizzatori sociali il rapporto non è differente. In Italia non si ha certo una copertura assicurative del 80-90% dell’ultimo reddito!
Inoltre due studiosi americani, Algan e Cahuc, in un articolo del 2005, sostengono che nei Paesi Scandinavi dove esiste un forte spirito pubblico la flexicurity funziona; mentre nei paesi dell’Europa Mediterranea, caratterizzati da una scarsa educazione civica, si rischia di incorrere in un abuso di aiuti pubblici. Insomma, si potrebbe scegliere di restare in una condizione di disoccupazione per ricevere il sussidio ma svolgere contemporaneamente lavori in nero. È pur vero che in Italia per poter usufruire di questo privilegio si devono svolgere attività in determinati enti in modo che, almeno teoricamente, non ci si possa dedicare ad altre. Il problema è che non ci si dedica neppure a trovare un nuovo lavoro, ma anzi si sviluppano aspettative di assunzione pur essendo “lavoratori socialmente utili”.
In conclusione, non solo le attuali forme di flessibilità sono pericolose, ma risulterebbe altrettanto pericoloso trasformarle in qualcosa di sostenibile.

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