lunedì 21 luglio 2008

La mia rabbia è la loro?

A lavoro. Entra un venditore ambulante, un vu’ cumprà e, mostrandomi un telo mare, mi invita ad acquistarlo per garantirgli almeno un panino. Dico che non sono interessata e, con tono gentile, gli auguro comunque una buona giornata sperando di frenare così ogni sua potenziale insistenza. Tentativo fallito. Il tipo torna alla ricarica riprendendo a farmi lo stesso discorso ma io rimango impassibile nella mia posizione. Passa allora a chiedermi un’offerta, anche solo un euro. Mi implora quasi, e io, cercando di mantenere sempre un tono cortese seppur più deciso, rispondo con un secco no. Gli spiego che io, per guadagnare un solo euro, devo dapprima servire un cliente e poi sperare che ne spenda almeno trenta. Un vero colpo di fortuna considerando l’attuale trend delle vendite. Tutto inutile. Decide allora di far leva sui miei sentimenti dicendomi, con aria preoccupata, che ha due figli da sfamare. ALT! È proprio qui che perdo il mio self-control e la rabbia ha il soprevvento. Questa frase più la sento, più mi infastidisce. Cambio infatti subito atteggiamento affermando che io di figli non ne faccio proprio perché non potrei mantenerli.
So bene che spesso determinate situazioni non dipendono da noi. Che puoi ad esempio svegliarti una mattina con moglie, figli, senza lavoro e con notevoli difficoltà a trovarne un altro. Ma non ci riesco. Quella frase mi sa di calunnia. Difatti, il giorno seguente, altra zingara stesso discorso.
Perché non riesco a commuovermi alle loro parole?
Mi torna in mente una pagina di Luca Goldoni in Vita da bestie:
Anche perché stravedere per gli animali, a volte, svela aspetti mortificanti. Anni fa a San Francisco avevo osservato che quasi tutti i barboni avevano in grembo un cane o un gatto, impassibili come loro nella dignità di una miseria accettata. E non avevo pensato che si portassero dietro l’animale per richiamo, come le zingare per i lattanti dai piedini nudi in dicembre. Credo che in America pietà o indifferenza prescindano dall’immagine contingente.
Da noi non è così. Davanti a un grande magazzino staziona abitualmente una donna con il solito pezzo di cartone scritto in mezzo italiano, appoggiato a un cappello quasi sempre vuoto. Sento i commenti: quella è bosniaca come io sono cinese.
L’altra mattina, nel posto dove la figura nera è oramai inserita nell’arredo urbano, ho notato un insolito assembramento di massaie che si richiamavano con strilli di tenerezza: accanto alla donna c’era una cagnetta con tre cuccioli che succhiavano il latte. Dentro al cappello tintinnavano i centoni offerti dal repentino buon cuore. Con un colpo di ingegno la bosniaca aveva intuito quali corde toccare per commuovere i passanti
.”
Io stravedo per i bimbi ma sono come gli Americani.
Vorrei chiedere a queste persone di raccontarmi la loro storia. Non l’ho mai fatto. Appena do il mio rifiuto a qualunque loro richiesta si tramutano in viso. Diventano piene di rabbia. Perdono di verità. Almeno per me.

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