martedì 30 dicembre 2008
Questa è la mia vita!
lunedì 15 dicembre 2008
lunedì 17 novembre 2008
Controsensi
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venerdì 24 ottobre 2008
Chi sono i veri precari?
Nel 1998 il Ministero dell’Interno, considerato che a partire dal 31 dicembre di quell’anno sarebbero risultati disponibili 184 posti a vigile del fuoco, bandisce un apposito concorso pubblico per esami. Nel 2000, avendo espletato quanto previsto dal decreto e redatta la graduatoria, vengono impiegati subito ben 486 partecipanti, di gran lunga più del doppio dello stabilito. C’era carenza di personale, in quel momento. Hanno fatto bene. Sbagliano adesso a non trattare in egual modo al 185esimo tutti coloro che hanno superato le varie prove selettive classificandosi pure come idonei. Invece… Invece si dà priorità ai volontari, a chi ha prestato servizio militare nel settore, e a quanti non sono di certo scelti secondo criteri concorsuali.
È cosa giusta?
Che anche loro possano avere questa possibilità è discutibile, ma che si debba ancora discutere l’assunzione dei 184 è ridicolo. Come lo è il continuare a temporeggiare su qualcosa che va fatto perché andava fatto già da tempo.
venerdì 17 ottobre 2008
lunedì 13 ottobre 2008
Come Grisù, ma non sputano fuoco bensì parole di diritto
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Mio marito è un 184, uno dei circa 1.000 idonei a concorso Vigile del Fuoco che da quasi 10 anni attende tuttora di essere assunto. La sua storia, la nostra, la loro, io la voglio raccontare per denunciare un sistema che ti fa sperare in un diritto continuando contemporaneamente a negartelo.
Ci siamo conosciuti nel marzo del 1998. Lo stesso mese il Ministero dell’Interno bandisce un concorso a 184 posti di Vigile del Fuoco, garantendo l’assunzione anche ai vincitori “fuori graduatoria” date le gravissime carenze di organico (decreto direttoriale in data 6 marzo 1998, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, 4ª serie speciale, n. 24 del 27 marzo 1998).
Dal 2000, avendo superato tutte le prove selettive ed essendosi classificato, abbiamo iniziato a fantasticare su come quell’impiego ci avrebbe garantito nel tempo una casa, dei figli, una serenità economica che a oggi, purtroppo, non abbiamo.
Di anno in anno, tra mille difficoltà, il Governo proroga la scadenza del concorso. Intanto dicembre è alle porte, come pure la finanziaria, e ci ritroviamo nuovamente a doverlo trascorrere nell’ansia di un ennesimo, agognante, slittamento dei termini, in una sospensione d’animo che mina la felicità di un Natale che potrebbe essere segnato dalla fine di tanti sogni più che dalla loro definitiva realizzazione.
Da giorno 7 sono in piazza Montecitorio a Roma per protestare, per far sentire a chi di dovere che LORO ci sono ancora, che ancora attendono, che ancora aspirano ad essere servitori di uno Stato che sembra averli dimenticati.
I nostri nomi non contano. La nostra vicenda è simile a quella di tanti altri idonei. Il destino, o più semplicemente il tempo, ha voluto accomunarci anche in questo. Siamo già un gruppo. Sono già una squadra.
Spett.le redazione, chi Vi scrive è uno dei 1400 idonei rimasti in attesa da otto anni del concorso pubblico a 184 posti di Vigile del Fuoco bandito nel 1998. Da martedì 7 ottobre scorso, in piazza Montecitorio, è costantemente presente un gruppo di idonei che porteranno avanti ad oltranza lo sciopero della fame fino a quando chi di dovere non darà una risposta concreta e definitiva a questa situazione.
Per l'anno 2008 il governo ha autorizzato l'assunzione di 1135 vigili discontinui (precari), che a differenza nostra non hanno dovuto nemmeno superare le cinque prove concorsuali, bensì solo una di esse, la prova ginnica. La cosa assurda è che con il decreto milleproroghe 2008 hanno autorizzato la proroga della validità della nostra graduatoria per l'ottavo anno consecutivo per assumere solo 52 unità a fronte delle 1135 unità dei discontinui (precari). Abbiamo, già da tempo, costituito un Comitato che lotta giorno dopo giorno per far valere i propri diritti sanciti dall’articolo 97 della Costituzione, che recita: “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso”, questa precisazione è stata più volte ricordata anche dal Ministro Brunetta, però purtroppo, non ne vediamo riscontro.
Stando al parere emesso dal Dipartimento della Funzione Pubblica (UPPA n°2/08), sussiste il vincolo, più volte ribadito dalla giurisprudenza costituzionale, di garantire l’adeguato accesso dall’esterno (mediante concorso) in misura non inferiore al 50 per cento dei posti utilizzati, configurandosi, infatti, la stabilizzazione, come progressione verticale. Purtroppo, anche di questo non abbiamo riscONTRO.
Il Comitato idonei 184 V.F. è disposto a qualsiasi cosa pur di vedere realizzato questo sogno ed è per questo che La invita a divulgare ufficialmente la notizia di questa nostra iniziativa, sperando di sensibilizzare l'opinione pubblica ed ottenere finalmente risposte concrete dallo Stato, per il quale in futuro, si spera, saremmo disposti a dare la nostra vita. Cordiali saluti, un idoneo del concorso 184 V.V.F. Luigi Lopardo
Da http://www.ilmessaggero.it/
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Ringrazio http://dug.splinder.com/ per avermi ricordato la storia di Grisù, da cui ho preso spunto per il titolo del post e da cui ho scaricato l'immagine.
mercoledì 1 ottobre 2008
Lettura consigliata
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martedì 23 settembre 2008
"Mi sono venduta per 800 euro al mese"
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È la trama del primo dei due episodi di Distretto di Polizia 8 andato in onda la settimana scorsa ma, almeno in parte, potrebbe benissimo essere la descrizione di una pratica abbastanza diffusa nella società italiana di oggi. Così, quando l’attrice che interpretava la parte dell’assassina ha confessato di essersi venduta per 800 euro al mese, ho pensato che l’indomani avrei approfondito l’argomento su internet. Il giorno seguente invece, prima ancora che mettessi in atto il mio proposito, ascoltando la radio tra una faccenda casalinga e l’altra, ecco una notizia che mi ha colpita più del film della sera precedente: il 18% di 540 studentesse intervistate dall’associazione Donne e Qualità della Vita accetterebbe di vendere il proprio corpo per affermarsi sul lavoro. E la colpa di questo loro “mal” costume sarebbe per il 24% della famiglia di appartenenza non benestante, mentre per il 10% dei mass media che promuovono tal “cripto prostituzione”. Io a 26 anni non baratterei mai me stessa per soldi. E voi?
domenica 14 settembre 2008
Linfa giornalistica
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Io, nonostante non possa annoverare tra le mie referenze nessuna collaborazione giornalistica né editoriale, escluso qualche articoletto in giornali locali, non rinuncio al mio sogno lavorativo. Aspirerò sempre a realizzarlo e cercherò di aprirmi, quando e dove possibile, nuove strade verso quella direzione, anche se, nel frattempo, posso fare altro.
Perché dovrei negarmelo?
Perché dovrei soffocare quest’anima che palpita dentro di me?
Sarebbe come chiedere a una sirena di scegliere: sentirsi o solo pesce o solo uomo. Ma è entrambi, per natura! Beh… io posso essere commessa, segretaria, moglie, madre, ma sarò sempre giornalista di carta stampata. Anche senza tesserino né qualifica, perché lo sono nel sangue, nella testa, nelle mani… in tutto ciò che sono. E ogni passo che ho compiuto finora per il raggiungimento di questo obiettivo non lo rimpiango.
Neppure quando mia madre, con i soliti discorsi già detti e ridetti, mi rinfaccia, con fare dolente, che se avessi scelto un’altra facoltà universitaria, adesso, forse, non farei un lavoro non all'altezza delle sue aspirazioni e dei suoi sacrifici, ma avrei, magari, già un impiego stabile.
Neppure quando mi invita a nuovi studi in un settore professionale maggiormente richiesto dal mercato, senza comprendere il significato delle mie parole: non potrei, non riuscirei a impegnarmi seriamente, con spirito e motivazione, in qualcosa che mi farà sentire comunque un’infelice. Se proprio devo esserlo, preferisco esserlo il minor possibile, e non dolendomi di aver dovuto pure faticare per ritrovarmi in una simile condizione.
I più, sentendomi fare simili discorsi, si affrettano a ribattere, interrompendo il mio parlare, che sono un’incosciente immatura, che devo affrettarmi a crescere ora che ho messo su famiglia e abbandonare certe illusioni da ragazzina. Ma cosa ne sanno loro? Io li faccio i miei sacrifici, sgobbo per racimolare qualche euro, eppure voglio ancora altro da questa mia vita. Ho una passione che mi motiva e mi fa sentire viva, e che prima o poi mi garantirà “sostentamento”. Intanto le do sfogo in questo mio blog, che racconta di me e di giovani volenterosi pronti a lottare per affermare la propria identità in un Paese, l'Italia, dove spesso veniamo visti ed etichettati come fannulloni falliti.
lunedì 8 settembre 2008
L’archeologo imprenditore
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sabato 30 agosto 2008
Il lavoro interinale meglio del pallone?
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Oggi Davide ha trentadue anni. Da circa un anno è stato assunto alla Nissan, e grazie a questa stabilità già pensa di comprare casa e metter su famiglia. La sua storia, raccontata in Precari e contenti, da cui ho tratto il testo, mi ha colpita perché ha lui è stato negato un sogno da una madre che pensava di fare il suo bene.
Fin da piccola adoravo starmene seduta sul divano a leggere qualsiasi opuscolo, volantino, pubblicità, trovassi nel mobiletto porta-telefono. Poi un giorno in garage scovai in uno scatolone tanti numeri di Cronaca Vera, rivista settimanale specializzata in costume e cronaca nera. Mia madre li aveva avuti dalla sorella per usarli come carta straccia per accendere la caldaia a legna dei termosifoni. Prima che finissero divorati dalle fiamme, io, me ne appropriai tutta contenta da buon lettore in erba. Avevo soltanto quattro anni, ma sapevo anche già scrivere e far di conto. Ben presto ebbi modo di spulciare perfino Famiglia Cristiana sottraendola, tra un cliente e l’altro, a mia zia. Passavo spesso pomeriggi interi nel suo negozio, poiché giocavamo proprio nel marciapiede di rimpetto. Un altro mio appuntamento fisso erano i tg. In questo, diciamo, sono tutta mio padre. Come dire… Per Hegel la lettura del giornale era la preghiera mattutina dell’uomo moderno. Per noi la visione dei tg quella del mezzogiorno e della sera. Accadeva così che, a differenza del resto della famiglia, io ero l’unica a parlare sempre in italiano anziché in dialetto. Chi mi ascoltava, sorrideva. Immaginate voi un pidocchietto di bimba, leggermente paffutella, con dei riccioli informi tenuti a bada da qualche acconciatura con fermaglio di turno, piazzarsi davanti a voi, mani ai fianchi, e dirvi in perfetto italiano ciò che le passa in quel momento per la testolina, nonostante nessuno le parli in quel modo.
Adorabile!
Semplicemente passionale invece.
Il suono di tutte quelle parole esercitavano su di me un potere, oserei azzardare, ipnotico. Mi ammaliavano, e io cedevo ben volentieri al loro effetto.
Fino alle elementari non ebbi modo di leggere nessun libro per ragazzi. Poi, in prima, mi dissero che alcune storie contenute nel mio sussidiario le potevo ritrovare in biblioteca. Quel pomeriggio stesso chiesi a mia madre di andarci, e fu così che lessi il Piccolo Principe di Oscar Wilde (o sarà stato un altro? Irrilevante comunque). La volta successiva il mio sguardo fu attratto da uno scaffale con volumi dalla copertina interamente gialla. Avevo scoperto il mondo di Agatha Cristhie. Le sue storie stimolavano la mia curiosità. Il suo talento nel costruirle facendo dubitare di tutti i personaggi motivava le mie letture. In seguito, spinta dagli insegnanti che, nel vedere l’ardore con il quale divoravo intere pagine in poco tempo, ritenevano dovessi concentrarmi su generi a loro avviso di più alto livello, allargai il mio orizzonte di interessi.
domenica 24 agosto 2008
Alcune precisazioni
“Nell’ambito delle riflessioni sulle trasformazioni del mercato del lavoro non di rado si utilizzano come sinonimi termini con valenze semantiche molto differenti tra loro. Accade così che i concetti di atipicità, flessibilità e precarietà si sovrappongano in modo improprio, rimandando a loro volta a forme specifiche di partecipazione al mercato del lavoro che poco hanno in comune.
Se, ad esempio, ci si riferisce con il termine “lavoro atipico” a tutte quelle forme di lavoro che differiscono dalla tradizionale organizzazione dei tempi di lavoro, sia giornalieri sia settimanali, si scopre che soltanto poco più di un terzo dei lavoratori svolge una prestazione lavorativa a tempo pieno dal lunedì al venerdì, in ore sostanzialmente diurne e senza turnazioni e/o straordinari. Il part time, ad esempio, individua una forma di flessibilità del lavoro (prevalentemente femminile) che non è detto si associ a forme di precarietà e, al contrario, più spesso riguarda lavoratori stabili che optano per una riduzione dell’orario del lavoro.
Possiamo quindi affermare che il termine flessibilità coniugato con riferimento all’orario di lavoro non, necessariamente e immediatamente, individua condizioni lavorative che presentano difficoltà oggettive a partecipare con continuità e sicurezza al mercato del lavoro.
Gli elementi di insicurezza sono verosimilmente soprattutto legati alla mancanza di continuità nella partecipazione al mercato del lavoro e alla conseguente mancanza di un reddito adeguato su cui poter contare per pianificare la propria vita nel presente e nel futuro.
È quindi opportuno distinguere almeno tra flessibilità oraria e flessibilità contrattuale, in quanto solo quest’ultima sembra associarsi con più frequenza anche a condizioni di precarietà. Come risulta dall’indagine sulle Forze di lavoro, l’88 per cento dei lavoratori che hanno un contratto di lavoro a termine afferma che “la temporaneità non è una loro scelta volontaria”. Ciò a fronte del 55 per cento per l’insieme dei paesi dell’Unione europea.
Inoltre, sarà tanto più probabile individuare forme di precarietà quanto più la temporaneità del contratto si associa:
• a una ridotta o assente copertura previdenziale;
• alla mancanza di ammortizzatori sociali per la copertura dei periodi di vacanza contrattuale;
• a una scarsa probabilità di transitare verso contratti stabili;
• a una maggiore frammentazione del percorso lavorativo;
• alla brevità dei contratti;
• ad un sotto inquadramento contrattuale rispetto al titolo di studio;
• alla lunghezza della permanenza nella situazione d incertezza contrattuale.”
(Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro,Istat ,novembre 2006)
Per quanto riguarda il lavoro nero, da molti considerato una realtà a parte, a mio avviso rientra a pieno titolo fra le varie forme di precariato. Anzi, è la più esasperata, in quanto presenta i livelli più bassi di tutela dell’individuo rispetto ai punti or ora elencati.
Infine, che la precarietà così definita possa essere vissuta in maniera più o meno appagante dipende da esigenze del tutto individuali, come dimostrato dall’analisi delle mie e delle esperienze di altri.
lunedì 18 agosto 2008
Come pavoni
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Negli anni Ottanta l’incubo peggiore dei giovani era la disoccupazione. Oggi abbiamo possibilità di scelta: c’è anche il precariato!
Camaleontico, poliedrico, ti permette di accumulare, a suo dire, esperienze vent’anni fa impensate. Poi leggi proprio su Precari e contenti che certi lavoretti, tutt’ora in voga, erano semplicemente snobbati dalla maggior parte dei “piccoli borghesi” che, non essendo tenuti a lavorare se non per sfizio, erano dell’idea che o li assumevano per la vita o niente. Allora insorgi: e poi saremmo noi i coccolati, i blanditi,i compatiti? Saremmo noi gli aspiranti numero uno al posto fisso? Senza offesa né rancore né alcunché di personale, ma molti di noi mettono da parte aspirazioni e studi, si rimboccano le maniche, e si adattano a tutto pur di avere un’occupazione. Forse noi precari infelici siamo simili agli studenti-lavoratori del suo tempo, “una razza a parte, figli martiri di un’eroica classe operaia”. Noi sì che accettiamo come alternativa al nulla il precariato, mentre loro invece non potevano accettare di fare il barista o la cameriera. Anche questo noi facciamo, ma non potete negarci di farlo senza lamentarci. È troppo.
Le leggi in materia di occupazione hanno certamente aumentato l’offerta di lavoro, creando però al contempo situazioni di instabilità tali che la soddisfazione per aver trovato un impiego è sminuita dalla frustrazione per l’alta probabilità della sua temporaneità. Da un lato ci sono le opportunità, dall’altro c’è carenza di strumenti di controllo e di sostegno. Risultato: deficienza del sistema, insicurezza per i lavoratori.
La giornalista del Messaggero conclude il prologo al suo libro con l’invito a confrontare la sua caccia al lavoro con la propria. Io l’ho fatto e ci sono più somiglianze che differenze di quanto lei creda e scriva. Anch’io appena laureata ho inviato curricula a destra e a manca senza ottenere risposta.
Anch’io avrei voluto accompagnare la mia laurea con un master in giornalismo, ma ho dovuto rinunciare: 7 mila euro annui per due anni. Intanto spero di passare le selezioni per uno gratuito ma della durata di soli 40 ore (meglio di niente!).
Non ho fatto la lavapiatti, la baby sitter sì. Anche la segretaria e la commessa.
Se ci sarà mai l’occasione di un concorsone farò anche quello. Per vivere.
Ma non rinuncerò mai a ciò che più amo: scrivere.
Non siamo poi così irresponsabili come ci descrivono.
Siamo solo pratici, molto pratici.
E non dite “ai miei tempi…”. Allora il contesto era di tutt’altro genere. Allora evidentemente si poteva, oggi non sempre. Eppure facciamo.
sabato 9 agosto 2008
Maleoccupati su Acqua&Sapone
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Di seguito il testo:
Sposata? Sì.
Figli? No.
È questo il profilo della potenziale mamma, lo stesso che rimane di me ogni volta che sostengo un colloquio di lavoro. Di fronte alla combinazione di questi tre requisiti, la laurea da 110 in Giornalismo, i corsi di formazione professionale, le conoscenze informatiche certificate, vengono inevitabilmente archiviati nel dimenticatoio e la conclusione è perentoria: le faremo sapere, anche se…. Scartata. È così da un anno. Ora sono commessa part-time in un negozio di abbigliamento, in nero, con un misero stipendio che non raggiunge neppure le 200 euro mensili. Un’occupazione avuta grazie alla complicità di un’amica che mi ha presentata al suo datore (che poi è diventato anche il mio) senza specificare il mio stato civile. Lui non ha provveduto a indagare e ne è venuto a conoscenza soltanto qualche settimana dopo. Constatata la mia intenzione di non mettere al mondo creature che “avrei difficoltà a mantenere” – dissi – mi ha tenuta. Devo averlo proprio convinto! D‘altronde ho accettato di dedicare metà della mia giornata ad un’attività che esula totalmente dai miei interessi e, oltretutto, per un compenso da fame. Da aprile questa e altre esperienze le racconto nel blog www.maleoccupati.blogspot.com. L’idea è nata dalla lettura di un’inchiesta sul lavoro flessibile condotta su Panorama da Gianluca Amadori. Dalle storie riportate sembrava emergere l’immagine di un’Italia contenta di lavorare nell’incertezza. Eppure fra quelle righe ho scorto tanti segnali di insoddisfazione ed espressioni che ben conosco, che io stessa più volte ho pronunciato, e che riempiono le mie giornate scisse tra un’impeccabile vita familiare e un’inappropriata vita lavorativa.
mercoledì 30 luglio 2008
Io ho da ridire
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A ventitré anni sognano il salotto buono, la casa di proprietà, le vacanze organizzate e la pensione.
Troppo spesso loro stessi rassegnati a una società divisa in caste nella quale però non hanno più il posto pronto ad aspettarli.
Perché, prima lo avevano? Ripenso alle pagine di Vittorio Buttafava in La fortuna di vivere (Rizzoli Editore, 1982):
È un ragazzo di ventitré anni, tornato da poco dal militare. “Fate presto voi, che avete già vissuto la vita” dice quasi gridando “a consigliarci di stare tranquilli, di avere pazienza. Ma che cosa possiamo aspettarci? Ho preso la maturità, e mi hanno detto che quel pezzo di carta non contava niente. Ho fatto un corso di lingue, e pareva che a nessuno importasse del mio inglese e del mio tedesco. Ho imparato un po’ di elettronica presso l’azienda di un parente, ma guai a farmi illusioni; un posto per me non c’è e forse non ci sarà mai. Pazienza, voi dite, perché siete seduti in poltrona. Ma provate a stare in piedi, davanti a una porta chiusa, ad aspettare...”
Così l’autore commenta il racconto:
È qui la malattia dell’Italia d’oggi, in questa amarezza, in questa rassegnazione, in questa rabbia. E non è, purtroppo, solo una crisi di soldi o di lavoro.
Io dico: vada per l’amarezza e la rabbia, ma non per la rassegnazione. Siamo solo pratici. Dobbiamo esserlo, per esigenze. Rimboccarci le maniche, fare sacrifici, a noi no spaventa. È una prolungata incertezza per il futuro che non vogliamo. È il non poter far fruttare i nostri studi che non accettiamo. E non è detto che la preparazione o la determinazione bastino a farci realizzare i nostri progetti. Non ci interessano nè il salotto buono nè le vacanze organizzate, ma la casa di proprietà e la pensione sì. Per poter godere di una vita tranquilla, senza l’assillo di un affitto in scadenza e la preoccupazione di una vecchiaia incerta.
domenica 27 luglio 2008
Precari, Pdl difende norma.Sacconi prende distanze
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lunedì 21 luglio 2008
La mia rabbia è la loro?
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So bene che spesso determinate situazioni non dipendono da noi. Che puoi ad esempio svegliarti una mattina con moglie, figli, senza lavoro e con notevoli difficoltà a trovarne un altro. Ma non ci riesco. Quella frase mi sa di calunnia. Difatti, il giorno seguente, altra zingara stesso discorso.
Perché non riesco a commuovermi alle loro parole?
Mi torna in mente una pagina di Luca Goldoni in Vita da bestie:
“Anche perché stravedere per gli animali, a volte, svela aspetti mortificanti. Anni fa a San Francisco avevo osservato che quasi tutti i barboni avevano in grembo un cane o un gatto, impassibili come loro nella dignità di una miseria accettata. E non avevo pensato che si portassero dietro l’animale per richiamo, come le zingare per i lattanti dai piedini nudi in dicembre. Credo che in America pietà o indifferenza prescindano dall’immagine contingente.
Da noi non è così. Davanti a un grande magazzino staziona abitualmente una donna con il solito pezzo di cartone scritto in mezzo italiano, appoggiato a un cappello quasi sempre vuoto. Sento i commenti: quella è bosniaca come io sono cinese.
L’altra mattina, nel posto dove la figura nera è oramai inserita nell’arredo urbano, ho notato un insolito assembramento di massaie che si richiamavano con strilli di tenerezza: accanto alla donna c’era una cagnetta con tre cuccioli che succhiavano il latte. Dentro al cappello tintinnavano i centoni offerti dal repentino buon cuore. Con un colpo di ingegno la bosniaca aveva intuito quali corde toccare per commuovere i passanti.”
Io stravedo per i bimbi ma sono come gli Americani.
Vorrei chiedere a queste persone di raccontarmi la loro storia. Non l’ho mai fatto. Appena do il mio rifiuto a qualunque loro richiesta si tramutano in viso. Diventano piene di rabbia. Perdono di verità. Almeno per me.
sabato 19 luglio 2008
Maleoccupati torna presto
giovedì 3 luglio 2008
La flexicurity danese: un modello per l’Italia?
Apparteniamo alla categoria delle “generazioni flessibili”. Così titola il rapporto sull’occupazione edito dalla Fondazione Giacomo Brodolini per l’anno 2007. E aggiunge: “Nuove e vecchie forme di esclusione sociale”.
Il volume contiene 7 saggi che analizzano il problema della precarietà sociale, nonché il ruolo della formazione e del lavoro retribuito come strumenti di inclusione. In particolare Michele Raitano ed Elena Pisano, dottoranda in Economia politica a La Sapienza di Roma, discutono la possibilità di introdurre anche in Italia una “flessibilità sostenibile”, ossia un sistema che combini virtuosamente le richieste di flessibilità delle imprese con un’elevata protezione dei lavoratori in termini di ammortizzatori sociali, politiche attive e formazione professionale. Insomma, si chiedono se sia realizzabile anche da noi la flexicurity olandese, un modello basato sul cd. triangolo d’oro:
-normativa permissiva in materia di licenziamenti;
- sussidi generosi in caso di disoccupazione;
- politiche efficaci di attivazione al lavoro.
Le conclusioni a cui giungono i due studiosi invitano alla cautela. Attualmente non ci sono i presupposti, in quanto un simile mercato espelle di frequente un elevato numero di lavoratori che devono non solo essere tutelati economicamente ma anche professionalmente, per salvaguardarli da un lato e incrementarne qualifiche e occupabilità dall’altro. Ne deriva che è necessaria l’assenza di ogni forma di segmentazione della forza lavoro in termini di tutele del welfare delle retribuzioni, rischi di intermittenza dell’attività, e accesso a corsi di formazione. Requisiti del tutto assenti nel nostro Paese.
Nell’ultimo decennio difatti, i principali interventi normativi volti a favorire il mercato del lavoro italiano, il Pacchetto Treu (legge 196 del 1997) e la Legge Biagi (legge 30 d3l 2003), si sono concentrati principalmente sugli aspetti contrattuali a discapito di quelli della protezione sociale. Ciò ha determinato in primis una segmentazione fra lavoratori a tempo indeterminato e temporanei: un elevato grado di protezione dell’occupazione distingue i primi dai secondi. Quest’ultimi poi si sono distinti fra dipendenti a tempo determinato e parasubordinati (collaboratori coordinati continuativi o a progetto), i quali non hanno diritto a nessuna forma di sussidio di disoccupazione. Tale segmentazione ha assunto col tempo dimensioni sempre più preoccupanti. Basti pensare che dal 2001 al 2006 la quota annua di nuove assunzioni con contratti a tempo indeterminato si è ridotta dal 60% al 46%, mentre dal 1996 al 2004 quella dei parasubordinati è raddoppiata, e dal 2000 al 2004 quella dei determinati è aumentata del 20%. Ciò si è verificato perché, come spiegano Muehlberger e Pasqua, i contratti atipici sono utilizzati da molti datori di lavoro come un modo economico per assumere temporaneamente giovani qualificati. Non a caso il 30% del personale parasubordinato risulta laureato a fronte del 12% di quello indeterminato. L’essere laureati tuttavia non incrementa le possibilità per i temporanei di transitare verso forme contrattuali indeterminate (Corsini, Guerrazzi). Di qui l’emergere della trappola della precarietà, ossia il rimanere intrappolati nello status di svantaggiato per un ampio periodo di tempo, durante il quale si è esclusi perfino dalle attività di formazione professionale attivate dalle imprese. Quindi non solo si vive nell’incertezza, ma si rischia addirittura di rimanere sprovvisti in futuro di adeguate conoscenze e/o competenze.
Bisognerebbe dunque prevedere un’adeguata spesa in termini di politiche sia attive che passive. Le prime per favorire l’ingresso nel mercato del lavoro a chi ne è uscito (i cd. lavoratori scoraggiati) o aiutare chi ha perso il posto a trovarne un altro o crearne uno nuovo; le seconde invece per sostenere finanziariamente i lavoratori che perdono reddito a causa di licenziamento o pensionamento anticipato.
In entrambi i casi pero il sistema italiano risulta deficitario. Nel 2004 la quota PIL destinata a tali voci era pari rispettivamente allo 0,55% e allo 0,76% a fronte di una media UE15 dello o,70% e dell’1,47%. La Danimarca invece registrava le percentuali più alte.
La flexicurity pertanto non potrebbe funzionare fino a quando tali limiti non saranno superati. Un’azione non facile.
Da un'indagine Eurosta del 1999 si evince che, in tema di politiche attive, solo il 24% delle imprese organizza corsi di formazione, a cui partecipa solo il 26% degli occupati, a fronte di una media comunitaria del 62%/40% e a valori superiori al 90%/50% in Danimarca e nei Paesi Nordici. Anche in tema di ammortizzatori sociali il rapporto non è differente. In Italia non si ha certo una copertura assicurative del 80-90% dell’ultimo reddito!
Inoltre due studiosi americani, Algan e Cahuc, in un articolo del 2005, sostengono che nei Paesi Scandinavi dove esiste un forte spirito pubblico la flexicurity funziona; mentre nei paesi dell’Europa Mediterranea, caratterizzati da una scarsa educazione civica, si rischia di incorrere in un abuso di aiuti pubblici. Insomma, si potrebbe scegliere di restare in una condizione di disoccupazione per ricevere il sussidio ma svolgere contemporaneamente lavori in nero. È pur vero che in Italia per poter usufruire di questo privilegio si devono svolgere attività in determinati enti in modo che, almeno teoricamente, non ci si possa dedicare ad altre. Il problema è che non ci si dedica neppure a trovare un nuovo lavoro, ma anzi si sviluppano aspettative di assunzione pur essendo “lavoratori socialmente utili”.
In conclusione, non solo le attuali forme di flessibilità sono pericolose, ma risulterebbe altrettanto pericoloso trasformarle in qualcosa di sostenibile.
Italia maglia nera per stipendi, occupazione - Ocse
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Ma gli stipendi sono magri, almeno rispetto ai colleghi stranieri. A parità di potere d'acquisto, un italiano in media nel 2006 ha guadagnato 29.844 dollari, rispetto ai 38.252 dell'Ocse e 34.651 della Ue-15. Lo stipendio italiano in termini reali è calato dello 0,2% nel 2006. Altre contrazioni si sono registrate soltanto in Germania (-0,3%), Portogallo (-2,6%), Spagnia (-0,7%) e Paesi Bassi (-0,1%), contro una crescita dell'1,1% nell'area Ocse e dello 0,4% nella Ue-15.
Solo altri sette paesi stanno peggio o come l'Italia in termini di stipendio. Sono la Repubblica Ceca e quella Slovacca, l'Ungheria, la Polonia, il Portogallo, la Spagna e la Grecia.
TASSO OCCUPAZIONE BASSO TRA LE DONNE
Secondo lo studio "la scarsa occupazione femminile è innazittutto il risultato della debole partecipazione delle donne italiane al mercato del lavoro, dovuta all'inadeguatezza delle politiche di sviluppo delle infrastrutture per l'infanzia e all'insufficienza delle detrazioni fiscali a favore di coppie multi-reddito".
Inoltre, le italiane guadagnano in media il 18% in meno rispetto ai colleghi maschi per ora lavorata. "Persistenti pratiche discriminatorie nel mercato del lavoro sono un fattore chiave alla base di queste disparità".
E non sembra aiutare la condizione delle lavoratrici italiane il ricorso al part-time, pari al 15,1% sul totale occupazione (dato 2007), rispetto al 15,4% della media Ocse e al 18,1% di quella Ue-15, con una punta del 36,1% nei Paesi Bassi.
domenica 22 giugno 2008
Disoccupazione cresce, sopra 7%
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domenica 15 giugno 2008
Cosa vuoi di più dalla vita? Un Lavoro!
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Il mio ex datore di lavoro per la laurea mi regalò una maglia con su scritto “it is not what it is” (non è ciò che è). Da allora quella frase ritorna spesso alla mia memoria. Sono una commessa, cioè un’aspirante giornalista commessa. Sono felice, cioè non totalmente felice.
Ho un compagno che mi ascolta, mi capisce, con cui condivido perfino la più banale delle scelte, delle arrabbiature, dei sorrisi; Ho un amico che mi conosce veramente, a cui posso raccontare ogni cosa senza inibizioni, timori o censure. Il legame che ci unisce è talmente schietto, sentito e disinteressato che è come guardarmi allo specchio; Ho una famiglia che mi vuol bene, anche se a volte mi fa andare un po’ su di giri: si dispiace con me e per me di non vedermi godere del frutto dei miei studi e della mia passione. A mia madre, che è la persona che più si arrovella per la mia attuale condizione lavorativa, cerco allora di mostrare il lato positivo della situazione: sono in salute quindi posso lavorare e sperare di farlo un dì nel mio settore. Se non lo fossi, a me che avevano diagnosticato un male, sarebbe tutto più difficile.
mercoledì 11 giugno 2008
domenica 8 giugno 2008
Una mala occupazione accettabile. Parte seconda.
Certo, se avessi dovuto vivere soltanto di quella paga… beh… impossibile. Sicuramente sempre meglio dell’attuale che sfiora la metà, ma non adeguata comunque a esigenze a tempo indeterminato. Allora ero studente, i miei provvedevano alle mie necessità primarie (non ho potuto avere tuttavia tante di quelle cose per altri scontate!), lavorare era quasi uno sfizio, un capriccio paradossalmente. Ricordo che mia madre si oppose risolutamente all’idea. Dovevo pensare a laurearmi piuttosto! Non sprecare tempo in qualcosa che non aveva nulla in comune con i miei studi. Più volte sentii ripetermi simili frasi. Per qualche giorno fu perfino fredda e distante con me nel tentativo di dissuadermi. Io non demorsi. Era ciò che volevo. Dovevo dunque. Non penso che sarei arrivata prima al 110 se non avessi accettato quel lavoro. Anzi per me è stato un’iniezione di entusiasmo, di voglia di fare, di realizzarmi. Mi ha motivata in un periodo particolare della mia vita. Se così non fosse stato, il giorno della tanto attesa proclamazione non sarei andata a lavorare! No, non mi è stato imposto dal mio datore. Sono io che ho scelto. Volevo condividere l’importanza di quell’evento con lui e con tutti coloro che mi avevano vista stare sui libri tra una pausa e un’altra. Era il miglior modo per festeggiare.
Quel giorno però è iniziata la mia vera condizione di maleoccupata. Quel giorno, infatti, sono cambiati i presupposti di me lavoratore. Adesso avevo un titolo tra le mani. Adesso dovevo avere delle pretese. Dovevo esigere.
Non esigo perché non transigono. O stai alle loro condizioni o non sei assunta. Questa è l’unica regola. Purtroppo. Prendere o lasciare. Senza obiezioni. Dura lex, sed lex. Peccato che la legge sarebbe dalla nostra!
Così mi ritrovo già grande, con il pezzo di carta, delle necessità e senza garanzie. Senza tutti quei progetti che mi avevano accompagnato nel periodo della mia formazione e che ho abbandonato quando dalla teoria sono passata alla pratica. Da allora mi sento in perenne formazione. Stabile e instabile contemporaneamente. E neppure in ciò per cui ho studiato.
Ero l’Alessandro Anzolin dell’inchiesta di Panorama: lo studente.
Sono, a volte, un’Ismene Zumpano: il rassegnato.
Vorrei essere, ed è l’anima che più mi squassa dentro una giornalista. Di denuncia, di utilità sociale. Una giornalista in regola, con un futuro sicuro e nuovi progetti a cui poter pensare perché quelli di un tempo li ho già portati a termine. Con successo.
Intrappolati nel lavoro atipico
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L'età media è infatti di 34 anni e il contratto medio dura circa sette mesi. A livello territoriale la maggiore concentrazione si riscontra in Calabria e nel Lazio, dove sono precari tre parasubordinati su quattro. Per quanto riguarda i redditi, la ricerca evidenzia come per i precari la media si attesti nel 2007 a 8.800 euro l'anno, con un incremento rispetto al 2005 del 4,8%, pari a 405 euro. Si tratta, sottolinea la Cgil, di un aumento "tanto limitato da impedire il recupero dell'inflazione reale. Ciò indica inequivocabilmente un costante peggioramento delle condizioni economiche". Dai dati si evince inoltre che il lavoro parasubordinato non rappresenta un "evento passeggero". Le collaborazioni "per essere impieghi temporanei sono decisamente stabili nel tempo - sottolinea la ricerca - l'impressione è di essere di fronte ad una flessibilità contrattuale di lunga durata in cui l'impegno lavorativo, seppur intermittente nel corso dell'anno, è però rinnovato da un anno all'altro". I casi sono "molto frequenti: sei precari su dieci rimangono nell'impiego atipico per due anni di seguito, e oltre il 37% vi è rimasto per l'intero triennio in considerazione. Si tratta evidentemente di una condizione di intrappolamento nel lavoro flessibile". "Per affrontare il tema della precarietà - ha sottolineato Filomena Trizio, segretario generale Nidil Cgil - sono necessarie politiche adeguate che sappiano contrastare i fenomeni degenerativi basati su mere convenienze di costo del lavoro. Da qui la necessità e la responsabilità per il nuovo governo di mantenere e rafforzare" l'azione intrapresa nello scorso biennio.
mercoledì 4 giugno 2008
Il Protettore dei precari
venerdì 30 maggio 2008
Una mala occupazione accettabile. Parte prima.
Dopo l’esperienza del servizio civile nazionale, mi misi alla ricerca di un lavoro. Non avevo particolari esigenze economiche. I miei mi mantenevano volentieri all’università. Piuttosto sentivo l’esigenza di distrarmi dalla solita routine giornaliera fatta di studio, studio, e soltanto studio.
All’inizio pensai a un part-time. Evidentemente, da inesperiente, non avevo valutato attentamente la realtà locale: già era difficile trovare un impiego, figuriamoci poi uno conforme alle proprie esigenze!
Con un diploma di maturità classica, nessuna qualifica e una laurea da completare, dovevo solo incrociare le dita ed eventualmente adattarmi. Come confermato più volte in seguito, conoscere le persone giuste può essere un fattore determinante. Paradossalmente, anche per il lavoro più mal pagato, mal appagante, mal mal di questo mondo, una leggera spintarella non guasta.
Così tra passaparola, annunci, e appunto agganci, vengo presentata al titolare di una palestra alla ricerca di una receptionist. Ovviamente poco importava il mio curriculum. Perché, a parte le ore di educazione fisica alle superiori, le mie referenze in materia erano pari a zero. Comunque, come mi fu spiegato il primo giorno, avrei dovuto semplicemente occuparmi dell’apertura e della chiusura dei locali, della pulizia, della tenuta del registro soci e contabile e dell’accoglienza dei clienti.
Lavoravo tutti i giorni mattina e pomeriggio, tranne il martedì e il giovedì mezza giornata. Sfruttavo la restante, i ritagli di tempo che riuscivo a concedermi a lavoro a suon di musica o nelle notti insonni , per studiare. La domenica non era per me né il giorno del riposo né del Signore. Sono riuscita tuttavia a sostenere gli ultimi 3 esami con ottimi voti e con una soddisfazione personale di cui vado fiera tuttora.
La paga era buona: intorno alle 400 euro. Nessun contratto.
È stato un periodo davvero edificante, soddisfacente. Forse, calcolando le ore effettive (44 ore settimanali circa) e le mansioni svolte mi sarebbe spettato qualcosina in più. Ma non importava: avevo altri progetti. Purtroppo devo ancora realizzarli!
giovedì 22 maggio 2008
Che paese infame l’Italia!
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La rabbia racchiusa in quelle poche righe è la stessa che cova dentro di me.
Penso di averle lette con lo stesso pathos di chi le ha scritte, nonostante abbiamo due modi differenti di affrontare una medesima situazione.
Anch’io sono laureata, con il massimo dei voti aggiungo. Una laurea sudata fin dal momento in cui ho scelto il corso: giornalismo. Mia madre non era d’accordo. Ho raggiunto il traguardo quasi in tempo, con un’adrenalina dentro che mi faceva ben sperare. Dopo i primi curricula inviati a vuoti iniziai a rassegnarmi.
Attualmente sono commessa in un negozio di abbigliamento, in nero e sottopagata.
La rassegnazione iniziale è andata sempre più scemando.
Io non mollo! Io non rinuncio a ciò che amo fare, per cui ho studiato con sacrificio, da cui non riesco a tenermi lontana. Ho tentato, non lo nego. Invano. Ho rischiato di spegnermi lentamente.
Ad altri lavori, anche più “in regola”, invece sì che ho rinunciato!
Io non sono una sognatrice. Anzi, sono fin troppo realista, pratica, calcolatrice se serve.
Se c’è da aspettare, aspetto. Ho pazienza in compenso. Non molta, ma abbastanza.
Capisco tuttavia le ragioni di chi a 30 anni e con tanto di referenze sostiene fermamente: meglio precari che disoccupati. Amaramente, con quella stessa amarezza che racchiude una simile affermazione, dico: ha le sue ragioni.
Non saprei neppure restare in silenzio. No. Io non ci riuscirei.
Se vuoi sopravvivere a questa realtà devi adeguarti. È questa la vera trappola! Il nostro tallone d’Achille.
domenica 18 maggio 2008
Precari impotenti anche fra le lenzuola (parte seconda)
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mercoledì 14 maggio 2008
Precari impotenti anche fra le lenzuola
domenica 11 maggio 2008
Teoria confermata dunque?
Dal 1999, per ben 7 anni, lo studioso Michele Raitano ha seguito 1.103 lavoratori atipici giungendo alla conclusione che “per le donne, i meno giovani, i meno istruiti... lo status di parasubordinato o di lavoratore temporaneo… non appare per nulla semplicemente transitorio… ma nella maggior parte dei casi persistente.”
L’analisi si basa su microdati di fonte amministrativa dell’archivio di gestione separata dell’Inps, quella per intenderci a cui versano i contributi i collaboratori.
Un campione dunque fortemente rappresentativo poichè non derivante da criteri più o meno estemporanei o cervellotici.
Ne riparleremo comunque a giugno, quando potremo prendere visione completa del lavoro svolto da Raitano. Sarà infatti contenuto nel Rapporto sullo stato sociale curato dalla Fondazione Giacomo Brodolini, un progetto europeo di analisi dell’occupazione.
giovedì 8 maggio 2008
Panorama n° 8 del 21/02/2008
Potrebbe essere apprezzabile l’idea di sdrammatizzare un argomento così delicato come il precariato. Ma sono costretto a ritenere che o gli intervistati sono degli alieni (ci sono dichiarazioni che lasciano veramente perplessi: una su tante, quella di un certo Marco Fiori da Modena, che ha scelto il ruolo di precario rifiutando varie volte di essere assunto a tempo indeterminato) o il campione d’indagine non è rappresentativo dalla realtà lavorativa giovanile.
Agostino Alla, via e-mail
Meglio precari che disoccupati?
“VI SEMBRO
PRECARIA?
NIENTE POSTO FISSO,
MENO GARANZIE:
5 MILIONI DI LAVORATORI ITALIANI
HANNO ORMAI UN IMPIEGO FLESSIBILE.
MOLTI PERO’ NON SI LAMENTANO.
STORIE DI CHI CON
IL CONTRATTO A TERMINE
A IMPARATO A VIVERE BENE”
comincio a storcere naso, bocca e tutti i muscoli facciali. Non capisco. Possibile? mi chiedo. No!
Fra le storie raccontate ho individuato 3 tipologie di lavoratori:
· lo studente che, in quanto tale, momentaneamente non aspira al posto fisso. Ha altri progetti per il futuro, ossia far fruttare i propri studi.
“Dico grazie ai lavori precari. Mi sono serviti per pagarmi l’università. […] La mattina frequento l’università, il pomeriggio studio, dalle 18:30 alle 21:30 sono al lavoro. Guadagno 500 euro al mese, ma queste esperienze sono state per me molto positive, l’ideale per inserirsi nel mondo del lavoro pur continuando a studiare. […] In futuro però spero di trovare un posto come ingegnere.”
Lo stesso vale per Manuel Incorvaia, 20 anni, cassiere al Burger King:
“Vorrei lavorare sul trucco cinematografico o teatrale. Per inviare curriculum però serve un corso serio e così cerco di risparmiare.”
· il rassegnato, colui che ha rinunciato a inseguire la propria professione per cause avverse, per sfiducia al sistema, per necessità.
“Può sembrare paradossale, ma lavorare con la mia qualifica (operaio saldatore specializzato) non conviene, perché oggi per rispettare le norme di sicurezza le aziende devono spendere troppo e non ti mettono in regola.”
O Ismene Zumpano, 28 anni, la ragazza della copertina, qualche esperienza a nero come grafica pubblicitaria per sfruttare i suoi studi all’Istituto di arte e oggi segretaria:
“Questa è la realtà lavorativa, va accettata nei suoi lati positivi. Da grandi ci si deve ridimensionare. Non è andata, pazienza. Il mio sogno lo coltivo comunque, dipingo quadri."
· il calcolatore, colui che per interessi di vario genere sceglie di essere precario.
“Divorziata, con un figlio da crescere e due genitori anziani da accudire, per me lavorare su un progetto ha significato poter gestire la famiglia grazie a una certa flessibilità negli orari che puoi contrattare cosa che non è scontata per un lavoratore dipendente.”
Stessa scelta, ma per motivi differenti, per Valerio Castellano, cameraman a tempo determinato a SkyTg24:
“Mi affascina l’idea di poter fare questo lavoro. […] Mi è stato detto: niente posto fisso ma un trattamento economico adeguato alla sua professionalità e aggiornamento professionale garantito. […] Guadagno più di prima e ho imparato a fare l’operatore satellitare.”
Ma di fronte alla domanda “Precario e contento dunque?” risponde:
“vabbè non esageriamo. […] Punto su me stesso. Se lo meriterò mi daranno questo benedetto posto fisso.”
· il prototipo del precario felice, espressione usata da Marco Fiori, 33 anni, addetto stampa, che descrive la propria situazione nei termini seguenti:
“Fra pro e contro, sono i pro a vincere. Nettamente […] la libertà di mettersi in gioco giorno dopo giorno non ha prezzo. […] Il percariato ti costringe a puntare sulla qualità del lavoro. Proprio perché non hai certezze ogni giorno investi sulla tua professionalità.”
Però precisa:
“Serve un profilo professionale medio alto. Altrimenti ci credo che il precariato è difficile da gestire. Serve insomma un alta specializzazione perché è importante che il ritorno economico sia al di sopra della media.”
Nei casi presi in esame da Panorama dunque l’avere un lavoro flessibile è vissuto dagli intervistati come una condizione positiva semplicemente perché funzionale alle proprie esigenze: di vita, studentesche, professionali, economiche.
Non a caso l’indagine conoscitiva pubblicata proprio dall’Istat nel novembre del 2006 e volta ad approfondire l’andamento del precariato nei precedenti 5 anni non è riuscita a darne un quadro completo, né in termini di dimensioni che di probabili cause. Ha tuttavia messo in luce che per l’88% dei lavoratori la temporaneità non è stata una scelta. Ciò a fronte del 55% per l’insieme dei paesi europei.
Segno che comunque la flessibilità contrattuale più che un’esigenza è una costrizione.